L’assassinio di Roger Ackroyd di Agatha Christie

Questo romanzo di Agatha Christie è il terzo in cui compare come investigatore il personaggio di Hercule Poirot, ed è forse il più ingegnoso, controverso e apprezzato dalla critica e dal pubblico della Christie, grazie a un colpo di scena finale geniale che gli ha assicurato una duratura influenza sul genere della letteratura poliziesca, contribuendo a definirne le caratteristiche.

In Italia l’opera uscì inizialmente nella celeberrima collana dei Libri Gialli Mondadori col titolo “Dalle nove alle dieci”, di certo più convincente visto il cruciale aspetto dell’alibi dei personaggi nel presunto orario dell’omicidio.

Nel paesino di King’s Abbot, il più ricco e illustre cittadino, Roger Ackroyd, viene assassinato nello studio della sua villa. Poirot, famoso detective belga ritiratosi dalla professione per coltivare zucche, incaricato di indagare sul caso, scopre un’inquietante verità che mette a nudo un meccanismo criminale ingegnosissimo. Il libro finisce con uno spiazzante colpo di scena: Poirot, scagionati tutti i sospettati, dimostra la colpevolezza del dottor Sheppard, che nella vicenda ha assistito Poirot stesso, ma è anche il narratore del romanzo attraverso il resoconto, intrapreso dal medico per descrivere il fallimento di Poirot nella caccia all’assassino, che si trasformerà nel finale in una drammatica confessione culminante nella pianificazione del proprio suicidio.

La scelta stilistica di un narratore bugiardo e colpevole fa sì che il lettore giunga al termine del romanzo senza sospettare nulla e rimanga dunque sorpreso dal colpo di scena finale, sentendosi in un certo senso “ingannato” dall’autrice che ha trasgredito le convenzioni classiche di una storia gialla. Quello stesso lettore, tuttavia, probabilmente accetterà la sfida lanciatagli dalla Christie, e si immergerà in una seconda lettura, a caccia degli indizi, delle allusioni, delle zone d’ombra e piccole tracce disseminate lungo il racconto. La critica fa notare che in questo libro la Christie si diverte a mettere a punto la sua “officina del giallo”, come dice Sciascia nella sua postfazione, creando un vero e proprio “manuale” su come si scrive una buona storia, vale a dire un poliziesco riuscito perché fino alla fine il lettore si stringe a fianco dell’assassino, sta dalla sua parte, proprio perché è scontato che sia insospettabile! Dal punto di vista stilistico è anche molto interessante l’espediente del colpevole che annota nel suo diario ciò che succede, e nel farlo si sente uno scrittore, avvertendo tutto il potere e il fascino della scrittura in sé e delle sue straordinarie potenzialità. E in questa consapevolezza ci accorgiamo che è la stessa Agatha Christie a parlare per bocca del dottore, per esaltare la forza dello scrivere.

Certamente per un lettore contemporaneo questo libro non risulta sorprendente come accadde ai lettori del 1926, quando si ritrovarono dinanzi un libro innovatore e per certi versi scandaloso, non solo per l’evidente istigazione al suicidio dell’assassino da parte di Poirot, al fine di salvare la propria dignità, ma anche perché il colpevole è un… dottore, figura ammirata ed esemplare per la società dell’epoca, un modello di virtù incomparabile assolutamente insospettabile. Ma a ben vedere tutta la vicenda si svolge su uno scenario fatto di meschinità, avidità, pregiudizi, segreti da occultare: i contemporanei britannici della Christie non avranno certo apprezzato questo ritratto spietato della società. È importante dunque contestualizzare storicamente questo libro per capirne fino in fondo la carica di novità sia sul piano dei contenuti e dei messaggi, che delle scelte stilistiche destinate a porre le basi del genere giallo: ad esempio si pensi alla tecnica narrativa del dottore e al suo modo di raccontare; in fondo non mente, semplicemente omette di riferire elementi chiave, usa insomma la reticenza.

Vivace e partecipata è stata la discussione intorno a tutti questi aspetti, e anche ai personaggi, in primis Poirot, da taluni giudicato un po’ troppo altezzoso, supponente, inflessibile, spocchioso perfino, capace di far sentire il lettore come suo ostaggio; per altri è invece ammirevole per la lucidità di visione e l’intelligenza nell’usare le cellule grigie, come afferma lui stesso. Un altro personaggio interessante è l’arguta sorella Caroline, con la sua finezza psicologica che la porta a vedere oltre il pettegolezzo, anche quando tratteggia un ritratto strepitoso del fratello mettendo a fuoco un aspetto determinante: è un debole e il movente del delitto sarà infatti una misera questione di soldi. Non a caso dal personaggio di Caroline la Christie deriverà la sua celebre Miss Marple.

Il vecchio che leggeva romanzi d’amore di Luis Sepulveda

La storia del vecchio che vive ai margini della foresta amazzonica con la sola compagnia dei romanzi d’amore prediletti ha appassionato tanti lettori in tutto il mondo ed è stata apprezzata anche dai lettori di Pagina 21: il romanzo, pieno di dolcezza e umanità, trasmette una profonda compassione verso tutte le forme viventi e un grande rispetto e apertura verso il diverso e verso la vita. Si sente tutta la sincerità dell’autore nello scrivere un canto d’amore dedicato all’ultimo luogo in cui la terra preserva intatta la sua verginità.

Per quanto si tratti di un’opera abbastanza semplice, con personaggi netti e privi di ambiguità, il libro non è banale, risulta anzi essere ricco di significati e messaggi universali: si parla di amore, di rispetto, di coraggio, di solitudine e di comunità.

L’ambientazione, con atmosfere quasi fiabesche, trasporta il lettore in un altro mondo, dove la vera protagonista della storia è la Natura con i suoi segreti e le sue sfaccettature. L’idea emersa dal confronto tra i lettori è che Sepulveda abbia voluto mostrare come non sia la Natura a essere ostile all’uomo, ma come sia l’umanità a inimicarsela, cercando di “piegarla” ai propri bisogni. L’autore mette in contrapposizione la capacità degli indigeni shuar e del protagonista Antonio José Bolivar di rispettare e adattarsi alla natura, all’incapacità e all’ignoranza rapace del mondo occidentale, rappresentato dai gringos e da El Lumaca, il grottesco sindaco del paese, arrogante e ignorante, convinto di essere superiore e di sapere più cose sulla foresta lui, di quanto non ne sappiano i suoi abitanti, solo per il Potere che rappresenta.

Attraverso il solitario Antonio che vive in un accordo intimo con i ritmi e i segreti della natura, Sepulveda ci mostra anche come si possa imparare a essere felici per le piccole cose: Antonio è legato a pochissimi oggetti, la sua dentiera, che ripone al sicuro in un involucro ogni qual volta non debba usarla per mangiare, la sua lente d’ingrandimento indispensabile per leggere, e i romanzi d’amore, che gli arrivano due volte l’anno e rappresentano per lui un tesoro. La scoperta della lettura è raccontata con una tenerezza e innocenza che strappa un sorriso al lettore e fa ricordare quanto non sia scontata la curiosità, e quanto sia bello interrogarsi sul significato delle cose: le pagine dei libri fanno scoprire mondi nuovi e suscitano una curiosità pura e ingenua, quando ad esempio il vecchio si interroga su cosa sia una “gondola” cercando di immaginare una città sull’acqua come Venezia, o come quando i cacciatori nella foresta si interrogano animatamente sul significato di “baciare qualcuno con ardore”.

Oltra ad Antonio, l’altro protagonista del romanzo è il tigrillo, animale selvatico e pericoloso, antagonista e forse specchio del vecchio. L’apice della tensione del romanzo è raggiunto nello scontro finale tra il tigrillo e Antonio, evento che si attende fin dall’entrata in scena dei due personaggi, quando cominciano gli attacchi dell’animale.  Solo un uomo come Antonio, depositario di una sapienza speciale, assorbita dalla grande foresta ai tempi in cui viveva immerso nel cuore della selva insieme agli indios, può adempiere al compito ingrato di inseguire e uccidere il tigrillo, il felino accecato dal dolore per lo sterminio dei suoi piccoli, che si aggira minaccioso per vendicarsi sull’uomo.

Sebbene tutti abbiano concordato sulla bellezza della descrizione della scena dello scontro tra i due, le interpretazioni al riguardo sono diverse. Per alcuni, il tigrillo rappresenta la parte bestiale di Bolivar con cui lui deve fare i conti; per altri è lo scontro tra natura e civiltà; per altri ancora, la ricerca di un senso profondo del mistero della vita e della morte da parte di Bolivar.

Di questo libro ha colpito la magia della scrittura: ogni frase e ogni parola evocano i suoni della foresta, ogni cosa sembra animata e quel luogo inizialmente ostile per il protagonista diventa unico motivo di vita. Antonio, perso ogni affetto, grazie agli insegnamenti degli indios impara il linguaggio della natura e i suoi segreti e iniziato ad una seconda vita riesce a penetrare il mistero delle cose. Il difficile compito di stanare il tigrillo che minaccia la sicurezza del villaggio e ucciderlo diventa simbolo dell’eterno scontro tra l’uomo e l’animale.

Il romanzo rispecchia con grande coerenza i valori dell’autore, anarchico, esule, impegnato politicamente, difensore della civiltà degli Indios Shuar.