Il buio oltre la siepe di Harper Lee

Questo libro ha segnato l’adolescenza di diverse lettrici di Pagina 21 che lo lessero negli anni ’60, appena tradotto e pubblicato in Italia: per tutte si è trattato dunque di una riscoperta e di una conferma, dal momento che il gradimento è stato unanime, e anzi arricchito di molti aspetti che alla prima lettura non erano stati colti nella loro originalità e apertura. La rilettura ha infatti messo in luce il valore di autentica “classicità” che questo libro ha acquisito, nel senso che, come tutti i grandi testi, è capace di parlare ai lettori di ogni epoca e non smette mai di trasmettere il suo messaggio. Così, se una lettrice ragazzina apprezzerà soprattutto la prima parte, un viaggio nell’infanzia alla Huckleberry Finn, di fianco alla sorprendente Scout, condito da giochi, sogni ed ironia ma inserito in un mondo di adulti non facilmente comprensibile, la lettrice adulta amerà in particolare la seconda parte, la cronaca di un trauma che attraversa non solo la vita della protagonista, ma anche la difficile integrazione umana di una società e di un tempo, la profonda America, popolata dai fantasmi dell’intolleranza, della discriminazione razziale, del pregiudizio.

Scout e Jem Finch sono due ragazzini orfani di madre, che vivono col padre Atticus, avvocato che, nonostante il poco tempo concessogli dalla sua professione, si occupa con grande sensibilità dell’educazione dei figli, col solo sostegno della domestica nera Calpurnia. Scout, di sei anni e Jem, più grande di 4 anni, con l’amico Dill, giocano a inventare personaggi ispirati alle vicende dei loro romanzi di avventura preferiti, attratti dalla misteriosa presenza del vicino di casa Arthur “Boo” Radley, segregato in casa ed emblema di quella “diversità” che suscita paura e pregiudizio.

La vicenda centrale riguarda invece il bracciante nero Tom Robinson, ingiustamente accusato di violenza sessuale nei confronti di una ragazza bianca (Mayella Ewell), e difeso coraggiosamente da Atticus in tribunale, nonostante l’ostilità dell’intero paese che lo chiama “negrofilo”, e del sistema giudiziario stesso che a priori lo ha già condannato.

Questi pochi elementi dell’intreccio bastano a spiegare il senso del titolo del libro, fortemente metaforico: oltre la siepe che separa la casa dalla strada c’è l’ignoto, incarnato dal buio, vale a dire la paura di ciò che non si conosce e che genera il pregiudizio. Il riferimento specifico è all’ambiguo vicino di casa, Boo, di cui i ragazzini hanno paura solo per ciò che si dice di lui, pur non avendolo mai visto.

Tuttavia nel testo ci sono numerosi riferimenti al titolo originale To Kill a Mockingbird (uccidere un tordo), ovvero un’azione crudele e immotivata. Il “Mockingbird” è il Tordo beffeggiatore, un piccolo volatile diffuso negli Stati Uniti, così chiamato per la capacità di imitare il canto di altri uccelli.

Pensiamo all’episodio in cui Scout e Jem ricevono come regalo di Natale un fucile ad aria compressa e lo zio Jack insegna loro a sparare; Atticus dice loro che possono sparare alle ghiandaie, ma li avverte che uccidere un animale indifeso che non fa del male a nessuno, come il mockingbird è un peccato. Dunque il titolo originale, esso pure metaforico, conferisce valore aggiunto a questo libro: il tordo per Harper Lee diventa il simbolo dell’innocenza, e allude alla piccola Scout, la cui innocenza sarà oltraggiata dalla violenza degli eventi, e anche al povero Boo, un bianco con la colpa di essere diverso e dunque marchiato come orrendo, spaventoso, proprio come il malvagio “uomo nero” Tom.

Denominatore comune di tutta la trama, che si svolge nell’arco di tre anni, è la voce narrante di Scout che, dai sei a i nove anni ricopre il duplice ruolo di narratrice protagonista e interna alla storia, e dunque è sempre suo il punto di vista dal quale ci vengono riferiti i fatti drammatici che determinano e accelerano la sua formazione, il suo passaggio all’età adulta.

Ma se la giovane Scout, Jem e Dill, con le loro anime incontaminate, sono immuni al razzismo, facendosi portatori sani di tolleranza, è merito anche dell’educazione ricevuta da Atticus, per alcune lettrici il vero protagonista del libro, anche se apparentemente defilato: la sua splendida ed esemplare figura si staglia sullo sfondo delle vicende anche quando non è in scena, con i suoi insegnamenti, i valori che riesce a trasmettere attraverso le sue equilibrate parole, il suo essere modello per chi è capace di ascoltare la propria coscienza e seguire il giusto. Atticus è il portavoce delle persone senza pregiudizi, che ragionano secondo i loro principi, senza essere influenzati dalle opinioni della folla. La coscienza è l’unica cosa che non debba conformarsi al volere della maggioranza.

L’intera famiglia Finch è un altro degli elementi meglio riusciti del libro: una famiglia meravigliosamente unita che i momenti di contrasto rendono ancor più verosimile; il loro progressismo genuino li distingue subito dal resto dei personaggi, compresi i familiari stessi, ad esempio zia Alexandra, nobildonna snob che si evolve nel corso della narrazione e da gretta conservatrice si fa persona aperta.

La mossa vincente del romanzo è far raccontare la vicenda dalla prospettiva della tenera Scout, in uno stile che mima alla perfezione quello che potrebbe essere il modo di esprimersi di una ragazzina, intelligente e dotata, ma pur sempre immatura.  Anche quel certo distacco che Scout sembra conservare rispetto ai fatti cruciali narrati, per quanto intimamente partecipati, e alla sua vicenda personale, rende il racconto fluido e credibile, apparentemente semplice… al contrario il lettore percepisce bene quanto la costruzione del romanzo sia scrupolosa, calibrata e attenta ai minimi dettagli, in ogni singolo passaggio.

Fra le tematiche toccate da Harper Lee, peraltro strettamente intrecciate fra loro, le lettrici hanno apprezzato il ruolo della scuola e in particolare il racconto della prima elementare vissuta da Scout: quello che dovrebbe essere luogo di incontro e integrazione si disegna come territorio ostile, una classe di bambini che riproduce esattamente gli stessi schemi della società adulta, e in cui il metodo educativo si scontra con tutto ciò che le ha insegnato Atticus. E mentre ne condivide la profonda delusione, il lettore comincia a capire che l’arretratezza di quel mondo non è solo economica ma culturale, ed è da lì che nascono ignoranza, chiusura, violenza. L’amarezza e la presa di coscienza di Scout sono ben tradotte in questo passaggio: Fino al giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?

E alla fine del romanzo, che non è in alcun modo lieta ma almeno “consolatoria” rispetto alla drammaticità di una società in cui regna sovrana l’ingiustizia, Scout pensa a Boo e al fatto che per tutti quegli anni ha osservato la vita dalla finestra di casa sua senza vivere una vita vera e capisce tutti i discorsi di suo padre sull’importanza della tolleranza verso gli altri e dell’accettazione di chi è diverso.

Scout, perché gli uomini non riescono ad andare d’accordo tra loro? – . Fece una pausa. – Mi pare di cominciare a capire qualcosa. Mi pare di cominciare a capire perché Boo Radley se n’è rimasto chiuso in casa tutto questo tempo. E perché vuole starsene rinchiuso.

Salvare le ossa di Jesmyn Ward

Un uragano minaccia di colpire Bois Sauvage, Mississippi. In una radura chiamata la Fossa, tra detriti, gusci d’ostrica, rami, spazzatura, vive una famiglia di neri, i Batiste, rimasti soli e disorientati dopo la morte di parto della madre: il padre alcolizzato, tre figli maschi – Randall, appassionato di basket; Skeetah, attaccato al suo cane China “come un’unghia alla carne”; Junior, “l’ultimo fiore di mamma” – ed Esch, la protagonista, unica ragazzina in un mondo di uomini, legge la storia degli Argonauti, è innamorata di Manny, e scopre di essere incinta.

È proprio di Esch la voce narrante del romanzo, ed è una voce che prende in prestito dalla natura: proprio come l’uragano che si gonfia in lontananza, si costruisce piano, raccogliendo le forze per nominare l’indicibile che incombe e che tutto stravolgerà: «È una donna, sono i peggiori. Katrina».

Nessun lettore è rimasto indifferente davanti a questo romanzo: una parte del gruppo l’ha definito potente, intenso e di grande valore per aver raccontato con sincerità, senza giudizio o accuse, il substrato di quella umanità che vive alla periferia sud degli Stati Uniti; per alcuni lettori ha prevalso invece il senso di repulsione per il carico di angoscia e rovina che trapela dalle pagine. Tutti hanno convenuto che l’autrice sia stata capace di gettare il lettore nella storia, tant’è che sembra di vivere la vicenda in prima persona. Ward ci immerge in questo dramma senza risparmiarci nulla, merito di un registro assieme poetico e ruvido e il coinvolgimento e la tensione sono dovuti ai numerosi particolari che fanno sì che ci si possa immaginare nitidamente le scene, come nelle pagine del terribile combattimento tra cani, riflesso della violenza tra uomini.

Anche il ritmo del romanzo contribuisce alla tensione: la vicenda si dipana in dodici capitoli, come dodici sono i giorni che separano dalla venuta di Katrina, un lasso temporale in cui Jesmyn Ward disegna il dramma di una classe sociale con precisione e raffinatezza. In questi dodici giorni il legame tra i fratelli e la fiducia reciproca si rinsalderanno, uniche luci nel buio della disgrazia incombente; anche se aleggia fino alla fine il dubbio della vacuità di ogni sforzo di far fronte alla devastazione, dell’ambiente naturale come della famiglia.

Dopo il passaggio di Katrina, di Bois Sauvage rimarrà soltanto “un taglio che non smette di sanguinare”, mentre i sopravvissuti, “macerie umane”, si confonderanno con i mille oggetti tornati a galla.

Le madri, in Salvare le ossa, sono le più indomabili e la maternità, raccontata con crudo realismo, è uno dei temi centrali del romanzo. Il racconto si apre con il difficile parto della cagna China, prosegue con la scoperta della gravidanza di Esch e con i racconti di una famiglia che ha perso la figura materna proprio durante un parto, evento che ha portato la famiglia alla deriva. Lo stesso uragano Katrina è definito una “madre sanguinaria”, che distrugge tutto, tranne i legami famigliari, che per quanto bizzarri e, a volte precari, rimangono.

La vulnerabilità alla catastrofe – ci rammenta la scrittrice che, a sua volta, è stata vittima dell’uragano – non è mai distribuita equamente: a uno svantaggio sociale corrisponde troppo spesso uno svantaggio ambientale e persino nell’apocalisse del Mississippi quei figli non si rivelano uguali.

Grande merito del romanzo è proprio dare voce e dignità alle storie dei miserabili, degli esclusi, facendo emergere le condizioni di discriminazione ed emarginazione in cui le famiglie di colore sono, ancora oggi, costrette a vivere, condizioni che l’autrice ha vissuto in prima persona, prima con il bullismo e poi con la morte del fratello, morto investito da uomo bianco ubriaco, rimasto impunito. E, proprio come Esch si aggrappa ai miti greci, alla storia di Medea e degli Argonauti, l’autrice ha trovato nella cultura, nello studio e nei libri lo strumento per uscire da una condizione di precarietà ed emarginazione.

Leggi la pagina 21 di questo libro.