Lessico famigliare di Natalia Ginzburg

Il libro della Ginzburg ha incontrato il favore unanime del gruppo: molti hanno voluto sottolineare il proprio appagamento al termine di una lettura coinvolgente, scorrevole, anche divertente.

Il romanzo, una sorta di autobiografia sui generis, racconta dall’interno la vita quotidiana della famiglia Levi, dominata dalla figura del padre Giuseppe, chimico e docente accademico. Il libro è una cronaca ironico-affettuosa dal 1925 fino ai primi anni ’50, che tratteggia le abitudini, i comportamenti e soprattutto la comunicazione linguistica della famiglia, da cui deriva il titolo. Figure ed eventi, piccoli e grandi, si avvicendano nella pagina senza ordine gerarchico, e si presentano da sé, vivono attraverso i loro gesti, le loro parole e anche i conflitti e le vicende della famiglia stessa. La prima parte, più leggera e briosa, ma ricca di concretezza nel restituirci la quotidianità più autentica, ripercorre la storia familiare di Natalia bambina, mentre la seconda narra del periodo fascista e della seconda guerra mondiale, quando vengono evocati l’uccisione del marito dell’autrice, Leone Ginzburg, per attività politica antifascista, la persecuzione degli ebrei, fino ad arrivare al suicidio dell’amico Cesare Pavese e alla caduta delle illusioni della Resistenza.

Un romanzo che Natalia Ginzburg si era proposta di scrivere fin da bambina, annotando le espressioni del padre, quelle che la madre ricollegava al collegio, o quelle delle amiche di infanzia, o delle liti dei fratelli, che ogni tanto si picchiavano. Il linguaggio – il lessico famigliare, appunto – a poco a poco si inserisce nel cuore del libro, permettendo al lettore di apprezzarlo e afferrarlo al volo. Ed è esattamente questo che ha conquistato noi lettori fin dall’inizio: è stato inevitabile ritrovarsi in quelle dinamiche intime, in quelle ritualità e modi di dire, soprannomi ed espressioni comprensibili solo a chi fa parte della propria famiglia.

Il lessico della Ginzburg non è solo una categoria linguistica, ma finisce per coincidere con il patrimonio genetico dei Levi, il legame che li fa riconoscere e sentire uniti, sempre, al di là delle distanze e del tempo. Un lettore ha proposto di rileggere insieme la pagina: Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando ci incontriamo, possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti, ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte nella nostra infanzia. Ci basta dire: “Non siamo venuti a Bergamo per fare campagna” o “De cosa spussa l’acido solfidrico”, per ritrovare ad un tratto i nostri antichi rapporti, e la nostra infanzia e giovinezza, legata indissolubilmente a quelle frasi, a quelle parole. Una di quelle frasi o parole ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone. Quelle frasi sono il nostro latino, il vocabolario dei nostri giorni andati. Quelle frasi sono il fondamento della nostra unità familiare, che sussisterà finché saremo al mondo, ricreandosi e risuscitando nei punti più diversi della terra.

È un lessico anche sensoriale, diretto all’orecchio, con le sonorità del dialetto che caratterizza i diversi personaggi (sempio, negrigura, skiare…) ed è come se li riportasse in vita ai nostri occhi di lettori che ci gustiamo gli spassosi scambi di battute. La scelta delle parole, la coloritura dialettale e le frasi ricorrenti sono dunque il vero cuore del romanzo. C’è una pagina in particolare in cui la Ginzburg ci spiega come intende il suo mestiere di scrittrice dopo la tragedia della guerra: Era necessario tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi, o se avevano soltanto le effimere radici della comune illusione. Era dunque necessario, se uno scriveva, tornare ad assumere il proprio mestiere.

Ma c’è anche un altro aspetto che ha sollecitato la discussione: Natalia è una narratrice schiva e impersonale, di fatto non è mai protagonista, è come se guardasse da un angolino, da una zona d’ombra, non giudica, non commenta, non invade i pensieri dei personaggi scavando nella loro intimità come abbiamo visto in Gita al faro (libro che presenta molte analogie, per le tematiche e il messaggio); la psicologia dei personaggi non emerge mai, e nemmeno nelle pagine più dolorose e drammatiche come la persecuzione dei dissidenti loro amici e di loro stessi in quanto antifascisti ed ebrei, oppure la morte del marito Leone Ginzburg, Natalia lascia trasparire la sua sofferenza, lo strazio, la disperazione o la condanna degli oppressori. Questa scelta stilistica, che lei stessa dichiara anche in un’intervista dove depreca certe scrittrici “umide di sentimenti” (solo anni più tardi riconoscerà l’esistenza di una scrittura di genere) ha suscitato qualche perplessità in diversi lettori.  Di sicuro la Ginzburg rifugge da quello che definisce “esibizionismo autobiografico” e da ogni retorica o sentimentalismo patetico. La scrittura deve narrare, non deve inventare nulla, deve farsi memoria, testimonianza.

Gli stessi valori su cui si fonda la famiglia Levi, antifascismo, appartenenza alla comunità ebraica, forte senso etico e rigidità nell’educazione dei figli, non hanno bisogno di essere esplicitati nel racconto, sono semplicemente sottintesi, dati per scontati, emergono direttamente dai comportamenti e dalle parole dei personaggi.

Ha colpito, a questo proposito, la matrice speciale della famiglia Levi che la caratterizza come comunità aperta verso gli altri, luogo di incontri e di discussioni, di confronto e di cultura, insomma spazio di politica nel senso autentico del termine: valutazione non condivisa da certa sinistra che l’ha etichettata come famiglia un po’ troppo snob e intellettuale. Sicuramente la cultura è uno dei fondamenti su cui Giuseppe Levi ha fondato il suo nucleo familiare, ma non per rinchiuderlo al resto del mondo: Natalia ricorda spesso di aver avuto in guerra una casa molto affollata, dove, oltre a chi aiutava nelle faccende, venivano invitati solo antifascisti, tra loro anche i nomi di Turati, Kuliscioff, Carlo Levi e molti altri. Indimenticabili sono le pagine dedicate a Olivetti e soprattutto a Pavese: abbiamo riletto i passaggi in cui si parla della sua ironia e del suicidio, uno dei rari momenti in cui Natalia si lascia sfuggire la sofferenza per la perdita di un caro amico.

A chiusura della discussione abbiamo voluto riprendere il messaggio potente che ci lascia questo libro: ci sono parole di cui non si può fare a meno, parole che devono far parte di noi come se fossero un pezzo del nostro corpo. Le impariamo dentro la nostra famiglia, servono a costruire ciò che siamo, a farci diventare delle persone consapevoli di noi stesse. Molto spesso sono parole antiche, sedimentatesi nel corso degli anni, che passano dai padri ai figli, con sempre rinnovata forza. Lessico famigliare di Natalia Ginzburg racconta questo incantesimo del linguaggio, perché alla fine siamo noi stessi le parole che viviamo ogni giorno, in ogni istante.

… e subito risuonerà al nostro orecchio la voce impaziente di mio padre: “Finitela con questa storia! L’ho sentita già tante di quelle volte!”

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Non lasciarmi di Kazuo Ishiguro

“Come classificare questo romanzo?” così si è aperta la discussione del gruppo sul romanzo di Ishiguro, perchè per molti lettori la definizione di romanzo fantascientifico dal carattere distopico non calza bene a quest’opera.

Il mondo del futuro creato dall’autore appare infatti come uno strumento per riflettere sul senso della condizione umana nell’universo contemporaneo, rivelando quelli che sono i timori e le ansie collettive della società, generate dagli sviluppi della manipolazione genetica degli anni ’90. Ishiguro è più di tutto interessato alle emozioni, alle relazioni, alle crisi esistenziali dei giovani protagonisti che si affacciano all’età adulta in una società arida e concentrata sull’efficienza; la costruzione di questa società fantascientifica rimane infatti sfumata, mancano dettagli e spiegazioni che invece in un romanzo di genere sarebbe state opportunità narrative da sviluppare.

Protagonisti del romanzo sono Ruth, Kathy e Tommy, creature senza passato in cerca di identità. La loro ricerca avviene attraverso la memoria, e talvolta attraverso un ricordo lontano e sbiadito che, tuttavia, li faccia sentire parte del mondo in cui vivono. Le loro aspettative sul futuro, però, vengono drammaticamente infrante quando si scoprono parte di un mondo distorto e terrificante, probabilmente lo stesso in cui noi tutti oggi viviamo, sembra volerci dire l’autore, dove la quotidianità è scandita da una sistematica mercificazione di organi e vite umane.

Un libro che traccia un confine labile tra il mondo vecchio e un mondo nuovo manipolato dalla genetica e dalla robotica. L’uno che si tinge con i colori della nostalgia e oggetti vintage come un’audiocassetta musicale, l’altro portatore di un progresso scientifico ed efficiente che sembra voler prendere definitivamente congedo, appunto, dall’umano.

Per diversi lettori è stata una lettura emozionante e di forte attualità, dove l’autore nonostante condivida con noi l’origine e il compimento del ciclo esistenziale dei cloni, al tempo stesso discute e ci mostra come queste creazioni artificiali, animate da profonde emozioni e sentimenti, diventino più umani degli esseri umani: la loro esperienza si fa metafora dell’umanità.

Di fatto, è il racconto di un’infanzia e una gioventù adolescenziale come tante, con relativa scoperta dell’amicizia, del rapporto morboso con il sesso, percepito e vissuto ossessivamente, come pretesto per cercare un proprio spazio di libertà; tutti aspetti normali di un percorso di formazione, ma che qui sono vissuti con una sottile, disturbante sfumatura di diversità.

È difficile non immedesimarsi e non rimanere colpiti dal destino di questi ragazzi che nonostante esibiscano tutte le ambizioni e le sofferenze della condizione umana non riusciranno a ottenere il “riconoscimento” di esseri umani. Sono qualcos’altro a cui non viene dato neppure un nome, fornitori di veri e propri pezzi di ricambio per gli uomini, scarti della società, che li produce e li sfrutta per garantire il benessere di altri individui a costo della loro sofferenza e infine della loro morte, o chiusura di ciclo.

Tra i temi più forti, affrontati dal gruppo, si può citare quello della speranza e sulla base di quanto emerso, a diversi lettori è venuto da chiedersi, perché i protagonisti della storia non si ribellano a tutto ciò? Perché non scappano insieme, cercando di fuggire alla loro sorte? Perché hanno accettato il loro destino? Questa apparente rassegnazione ha suscitato perplessità e delusione nel gruppo, ma forse è una conseguenza dell’educazione ricevuta che ha fatto loro interiorizzare la condizione di subalterni, di sub-umani nati non per essere ma per servire. L’impossibilità a fuggire e ribellarsi è frutto della maniera privilegiata in cui sono stati educati durante il college, dell’inconsapevolezza protratta, del senso di profonda e invalicabile differenza da coloro che abitano il mondo esterno, e allora l’unica via resta l’accettazione del proprio destino. Inoltre, la passività nell’accettare il proprio fato rispecchia, in un certo senso, la condizione dell’essere umano. Da sempre l’uomo deve fare i conti con la propria fragilità e provvisorietà, con la finitezza della vita, con la perdita progressiva del controllo sul proprio corpo.

Rimane però un campo di libertà, che è quello dei sentimenti, in cui i tre protagonisti potranno almeno moralmente avere un riscatto e trovare un senso alle loro vite: si sono amati, si sono aiutati, hanno creato dei legami importanti e unici e l’amicizia e l’amore emergono come uniche armi contro un mondo che nasconde egoismo e crudeltà.

Il rapporto fra i cloni e l’ambiente è stato oggetto d’interessante discussione. I protagonisti intessono una relazione ambigua con la campagna solitaria attraverso cui viaggiano, fornendoci momenti di commozione. Un’immagine che rivela appieno questo momento toccante è legata a un episodio in cui Kathy e Tommy conducono Ruth, nei momenti terminali della sua vita, a vedere una vecchia barca arrugginita, questo paesaggio costituisce la meta dell’ultima gita dei tre protagonisti. Il legame stabilito fra di loro non viene spezzato nemmeno dalla morte, perché conservati dai ricordi.

Un tema ricorrente nel romanzo è la memoria.  Kathy riflette le difficoltà nella sua vita rivolgendosi ai ricordi del passato. Conserva la memoria di Hailsham (il luogo dove sono cresciuti) molto tempo dopo la sua chiusura, così come conserva i suoi ricordi di Tommy e Ruth molto tempo dopo la loro morte. La memoria è una dimensione profondamente umana, dà il potere di mantenere in vita anche ciò che è ormai scomparso dall’esistenza. Riflette un bisogno profondamente umano di aggrapparsi alle persone amate. I ricordi di Kathy sono il suo modo di aggrapparsi a tutti e a tutto ciò che ha perso, ed è nei suoi ricordi che continua ad amare. La sua narrazione non è una copia, ma un racconto complesso e avvincente che è profondamente personale della sua esperienza. Così come, faceva notare un lettore, i disegni di Tommy sono un contrappunto ai gesti di copia, sono creazioni intricate e sorprendenti, difficili da interpretare e molto convincenti. In questo modo, i disegni di Tommy sono paralleli al romanzo stesso. Il romanzo alla fine parla della loro originalità e individualità, finalmente conquistata.

Una lettrice afferma che questo romanzo nonostante dimostri un’estrema maestria dell’autore non convince fino in fondo. A partire dalla scrittura, che risulta fredda nella sua precisione, spesso accompagnato da un clima di gelida angoscia. E dal finale, considerato da molti lettori incompiuto e scritto in maniera frettolosa. L’intento forse, era più invitare a riflettere sulle sfumature intime e profonde dell’animo di Kathy giunta al termine del racconto, piuttosto che a catturare i lettori con avvenimenti della trama. Infine, la discussione si è concentrata sulla rappresentazione cinematografica del libro, un film in grado di entrare direttamente nel vivo dell’azione, come è stato evidenziato da molti. Caratterizzato da una sceneggiatura sintetica in grado di riassumere tutti gli innumerevoli fili secondari della storia, permettendoci di entrare molto più facilmente in empatia con i vari protagonisti. Una lettrice ha fatto notare ad esempio come nella pellicola, l’episodio della morte di Ruth, risulti più crudo e vivo rispetto all’episodio narrato nel romanzo.

Leggi la pagina 21 di questo libro.