Invisibile di Paul Auster

La discussione all’interno del gruppo è stata davvero accesa, tra due posizioni nettamente contrapposte, entrambe forse un po’ estreme nel giudizio: come ha affermato un giovane lettore, “questo libro o lo si ama o lo si odia!” Una posizione più neutrale si è ritrovata in alcune lettrici che hanno tiepidamente apprezzato il libro per la sua forza narrativa, senza però entusiasmarsi.

Bisogna però dire che c’è stato un elemento unificante nei giudizi dell’intero gruppo: l’oggettiva difficoltà di comprensione del senso da parte del lettore che è continuamente messo alla prova dai ripetuti cambi di prospettiva, dalla grande abilità tecnica di Auster di coniugare i diversi io narranti passando dall’uno all’altro con leggerezza ed eleganza, costruendo una struttura singolare, a tratti geniale ma anche cervellotica. E così, man mano che si prosegue, i dubbi e le domande del lettore aumentano. Tanto per cominciare, chi è il vero protagonista, il giovane poeta Adam Walker, oppure l’ambiguo professore, Rudolf Born?; oppure protagonista è la verità e la sua impossibilità di esistere? Ad esempio a un certo punto nel romanzo interviene una novità sorprendente: dalla narrazione in terza persona si passa a quella in prima persona; Adam scrive la sua storia in un libro intitolato “Estate” e la invia ad un suo amico, nel frattempo divenuto scrittore (forse Paul Auster stesso?), al quale, mentre è vicino alla morte, racconta i segreti della sua vita. Questa scelta narrativa è spiazzante e in alcuni lettori ha provocato un senso di smarrimento e fastidio, tanto da abbandonare la lettura. Agli estimatori del libro invece è piaciuta la provocazione di Auster che, cambiando continuamente le carte in tavola, forse vuole confondere e disorientare il lettore per indicare come solo la scrittura consenta di lasciare una traccia indelebile ed incancellabile della nostra caduca condizione di esseri mortali. Senza la scrittura non esisterebbero memoria né civiltà umana, la scrittura conferisce potere, anche di leggere in se stessi.

Questo possibile messaggio che Auster ci lascia, tra le righe del suo complicato romanzo, pur incontrando il favore dell’intero gruppo di lettori, non risolve tuttavia la netta frattura tra chi è entusiasta del libro e chi lo stronca.

Cerchiamo di delineare le opposte argomentazioni: chi lo ha molto amato ha sottolineato il talento di Auster, la sua bravura nel giocare con i punti di vista, l’abilità nell’incastrare un romanzo dentro l’altro, sperimentando addirittura generi diversi, lo stile intrigante e ingegnoso ma non fine a se stesso, la capacità magnetica dell’intreccio di coinvolgere il lettore fino all’ultima pagina. Chi invece ha espresso un giudizio nettamente negativo ha trovato forti criticità proprio in quegli aspetti che hanno affascinato i lettori del primo gruppo: Auster ha abusato del proprio talento per spingersi eccessivamente in una ricerca stilistica che finisce per diventare artificiosa, lo sperimentalismo si riduce a freddo gioco letterario, ben lontano da quel Calvino che pure si è divertito all’infinito con le mille possibilità della scrittura; i temi intriganti e anche scabrosi sono risultati incongrui, assurdi; la fatica con cui il lettore deve decifrare un intreccio troppo contraddittorio fa sì che si generi un distacco incolmabile.

Il titolo condensa il tema principale del romanzo: l’invisibilità è citata esplicitamente nel libro, riferita alla scrittura autobiografica del protagonista: «Scrivendo di me in prima persona mi ero represso, mi ero fatto invisibile, mi ero reso impossibile scoprire ciò che stavo cercando. Occorreva che mi separassi da me stesso, facendo un passo indietro e scavando uno spazio fra me stesso e il mio tema (cioè me stesso)». Ma è anche attribuita alla descrizione del suo antagonista, il professore: «una bella faccia larga senza tratti caratteristici (una faccia, per cosí dire, generica, una faccia che in mezzo a qualsiasi folla sarebbe diventata invisibile)». Ma ci sono altre chiavi di lettura: invisibile diviene lo stesso Adam, la ricostruzione della sua vita ci svela le ombre che nasconde, e il lettore si ritroverà di nuovo a porsi delle domande su ciò che è “vero”, avrà l’impressione di aver finalmente “catturato” la “verità” e la sensazione, contrapposta, che l’autore voglia invece abbandonarlo al dubbio.

Il protagonista si svela, poi si nasconde tra le nebbie della sua solitudine e della sua stessa ambiguità, imprigionato dal rancore che nutre verso Born e il forte rimorso verso se stesso, ed è li che comprendiamo che nessuno e niente potrà essere totalmente trasparente, soprattutto l’animo di ogni essere umano.

In questo Auster è bravissimo a giocare con realtà e finzione all’interno della storia, a lasciare il dubbio nel lettore ma anche in ognuno dei suoi protagonisti: volutamente non caratterizza i suoi personaggi, per meglio evidenziare il loro lato oscuro, incomprensibile, non percepibile agli altri e forse neppure a se stessi, invisibile appunto.

Così chiudiamo il libro e non siamo sicuri di nulla di ciò che abbiamo letto, e questo senso di incompletezza può lasciare ugualmente appagati da tale “sublime ambiguità” (come recitano molte recensioni). O viceversa insoddisfatti e anche un poco irritati.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Le braci di Sándor Márai

Dopo quarantun anni due uomini, che da giovani sono stati inseparabili in un rapporto di amicizia esclusivo e totalizzante, tornano a incontrarsi per un’ultima volta in uno sperduto castello ai piedi dei Carpazi. Konrad ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro, il Generale, non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare. Tutto converge verso un «duello senza spade», ben più crudele. Tra loro, nell’ombra, il fantasma di una donna.

C’è nella lettura de “Le braci” un non so che di avvincente, di ammaliante; molti lettori sono rimasti affascinati quasi invischiati dal denso mistero di questo romanzo molto particolare, dallo stile ottocentesco ma scritto nel 1940, dall’impianto teatrale ma in cui dei tre protagonisti uno è defunto ormai da decenni e il secondo rimane in silenzio per tutto il tempo, lasciando al terzo il compito di intessere un finto dialogo che in realtà è un lunghissimo monologo-confessione.

L’intreccio viene impostato dall’autore quasi come un thriller: nel corso di un interminabile faccia a faccia a lume di candela, emergono dal passato i dettagli e la ricostruzione di cosa è avvenuto e cosa ha determinato la frattura insanabile, che ha fatto precipitare gli eventi verso esiti drammatici. Intorno a questo nucleo di eventi si dipana un’implacabile ricerca di ragioni e di motivazioni, nel presupposto che i fatti non possano esaurire la complessità di quanto è accaduto. La verità da scoprire non è infatti il tradimento della moglie o il mancato omicidio dell’amico, ma le ragioni sottostanti, le cause profonde e sotterranee, le intenzioni mai rivelate. Si tratta quindi di un’indagine psicologica, di una ricerca introspettiva del senso della propria vita e delle proprie scelte e desideri, in cui il lettore è coinvolto perché le questioni trattate toccano ogni essere umano.

Al termine dell’implacabile requisitoria, il Generale si accinge finalmente a formulare la domanda decisiva che è stata l’unica ragione che gli ha permesso di sopravvivere e Konrad, inaspettatamente, sceglierà di non rispondere e, alle prime luci dell’alba si accomiata dall’amico, presumibilmente per l’ultima volta, lasciando intatto il suo segreto. Questa mancata risposta ha sconcertato alcuni lettori, lasciando un sentimento di frustrazione, di attese insoddisfatte, di promesse non mantenute. Ma è a questo punto che il senso del libro va cercato altrove, in una direzione più astratta e metafisica. In questione non è più la verità di Heinrich, Konrad e Krisztina, ma la Verità tout court, o meglio la possibilità stessa di accedere a una qualche verità assoluta. Se una possibilità esiste che l’uomo riesca ad afferrare la verità nel corso della sua vita, essa si situa proprio nel suo momento estremo e conclusivo, vale a dire la morte (“L’uomo comprende il mondo un po’ alla volta e poi muore”).

Per alcuni lettori, quindi, la prima parte del romanzo è preparatoria, descrive il contesto, le psicologie dei personaggi, l’ambientazione storica per arrivare poi nella seconda parte al vero nocciolo prezioso del libro, alle domande filosofiche ed esistenziali. Si tratta infatti di “un libro che parla di filosofia, del senso della vita senza, essere filosofico”, come lo ha definito una lettrice.

Per queste caratteristiche è stato elogiato come una lettura preziosa, che ci aiuta a interrogarci, a guardare dentro di noi, a riflettere sui concetti di amicizia, relazioni, fedeltà, dignità, coerenza e verità. È un libro formativo che ci spinge a cercare il meglio, a non accontentarci di una vita superficiale perchè la ricerca di senso nobilita la vita umana.

Altro aspetto molto apprezzato è stato lo stile elevato ed elegante, il lessico ricercato, le descrizioni raffinate, dove i particolari dell’ambiente rispecchiano gli stati d’animo dei personaggi: Marai conduce il lettore a costruire dentro di sé le immagini e le emozioni raccontate e l’effetto è stato magico. Per alcuni lettori il libro è arrivato dritto all’anima, provocando un’emozione grande, una commozione davanti a tanta passione e bellezza: non è la storia che conta, né il finale e le risposte alle domande del Generale, il cuore del libro è la passione che brucia, l’intensità delle emozioni, l’atmosfera vivida della notte a lume di candela, delle parole del generale e dell’ascolto muto di Konrad.

Toccante e potente l’immagine del Generale, uomo eroso dal tempo, ormai immerso in una profonda dimensione riflessiva: il suo lunghissimo monologo si rivela essere un processo intentato principalmente a se stesso, per scoprire la colpa recondita, il peccato originale che lo ha fatto sopravvivere a Krisztina. Questa flusso di coscienza senza freni, davanti all’interlocutore nell’ombra e in silenzio, gli permetterà di capire la verità, di trovare da solo le risposte alle domande che lo hanno ossessionato nel suo isolamento. Ora che l’incontro con l’amico si è avverato Heinrich può finalmente morire, quasi pacificato: il ritratto della moglie ricompare al proprio posto sul muro, e lui trova conforto fra le braccia della vecchissima governante Nini, come un bambino consolato. È stata ravvisata una vicinanza tra il personaggio del Generale, uomo in crisi per la perdita di punti di riferimento, e lo stesso destino di Sandor Marai, suicidatosi e solo successivamente riscoperto dalla critica.

Il romanzo evoca un mondo lontano, quasi feudale, dove la vita di un uomo si caratterizzava per i titoli nobiliari, i doveri e valori della vita militare, la fedeltà all’Impero. La vicenda dei due amici si intreccia alle vicende storiche dell’impero austro ungarico ed entrambi vivranno il trauma e lo sgomento davanti alla fine di questo mondo, con un senso di sconforto, solitudine e profonda amarezza.
Non per tutti i lettori è scattata questa fascinazione per “Le braci”, trovato da alcuni noioso, non coinvolgente, soprattutto nell’estenuante ripetizione di concetti nel monologo del Generale. Ma alcune scene sono state apprezzate all’unanimità, come ad esempio la scena di caccia nel bosco, quando durante una battuta nel bosco, alle prime luci dell’alba, Heinrich ha l’intuizione che l’amico sia sul punto di ucciderlo sparandogli alle spalle. La scena è epica: questi istanti in cui la vita cambia per sempre, sono descritti in modo così vivo e intenso che sembra di essere lì, di sentire i rumori della natura e ogni respiro.