La pioggia prima che cada di Jonathan Coe

Il titolo prende origine dalla frase, apparentemente insensata, che viene pronunciata da una bambina, Thea, sulla riva di un lago. “Sai, Thea, non esiste una cosa come la pioggia prima che cada. Deve cadere, altrimenti non è pioggia”. (…) “Certo che non esiste una cosa così,” disse. “È proprio per questo che è la mia preferita. Qualcosa può ben farti felice, no? Anche se non è reale.”

La pioggia prima che cada non esiste, non la puoi vedere. C’è quell’attimo, quella particolare atmosfera che puoi capire soltanto dopo, quando la pioggia è già caduta, che puoi guardare retrospettivamente o che puoi intuire in anticipo grazie a una sensibilità così profonda da sfiorare la preveggenza. O forse si tratta solo di suggestione. Si tratta, allora, di un concetto astratto, di un’idea e di una supposizione che, se si avvererà diventerà qualcosa di estraneo a se stesso (banalmente se poi piove è solo pioggia) e se non accade diventa una bugia. Questo concetto può essere associato alla vita, anche se per un lettore è un personaggio ad incarnarlo: Imogen, la figlia di Thea dalla breve infelice vita, il personaggio meno realistico e più simbolico di tutta la vicenda.

Coe si affida alle emozioni di Thea per catturare quegli istanti che precedono un temporale: odori, rumori, ma anche bisogno di proteggersi, di correre, di coprirsi. E proprio su quel lago sta per finire un grande amore, quello di Rosamond e Rebecca, due giovani donne che sfidano le convenzioni di una Inghilterra anni cinquanta, dando vita alla famiglia meno tradizionale che si possa immaginare: due donne e una bambina che non è figlia di nessuna delle due, eppure è da loro amata come la vera madre non sa fare.

Il libro comincia dalla fine, dalla morte di zia Rosamond nella sua casa nello Shropshire, dove viveva sola, dopo l’abbandono di Rebecca e la morte di Ruth, la pittrice che è stata la sua ultima compagna. A trovare il cadavere è stato il suo medico. Aveva settantatre anni ed era malata di cuore. Quando è morta, stava ascoltando un disco – canti dell’Auvergne – e aveva un microfono in mano. Sul tavolo c’era un album di fotografie. La sorpresa viene dal testamento: zia Rosamond ha diviso il suo patrimonio in tre parti: un terzo a Gill, la sua nipote preferita; un terzo a David, il fratello di Gill; e un terzo a Imogen. Gill e David fanno un po’ fatica a capire chi sia questa Imogen, sembra loro di non conoscerla, poi ricordano di averla vista solo una volta nel 1983, alla festa per il cinquantesimo compleanno di Rosamond. Imogen era quella deliziosa bimba bionda venuta con gli altri a festeggiare la padrona di casa. Sembrava che avesse qualcosa di strano: sì, era cieca. Occorre dunque ritrovare Imogen per informarla dell’eredità che le è toccata. Ma per quanti sforzi si facciano, Imogen non si trova. E allora non resta – come indicato dalla stessa Rosamond in un biglietto – che ascoltare le cassette incise dalla donna… E qui il lettore fa un salto nel passato, leggendo-ascoltando le parole del lungo monologo.

Il libro infatti si distingue, rispetto agli altri di Coe, per struttura e ambientazione, strettamente legate, poiché è una raccolta di capitoli dedicati a venti istantanee che Rosamond ha scelto fra le tante di cinquanta anni di vita, e che descrive in ogni dettaglio a Imogen, destinataria del messaggio ma ancora introvabile, perciò sono Gill e le sue due figlie ad ascoltare per prime la cassetta.

Si deve dire che anche la consueta ironia dell’autore qui viene meno, non per un difetto del testo ma per scelta dello stesso Coe che in questo libro racconta una vicenda di rara durezza, e affronta temi importanti come la violenza domestica, i rapporti madre-figlia, i tradimenti, l’omosessualità e lo fa con naturalezza… così come la vita è, naturale. E con la stessa naturalezza ci svela una realtà che non è perfetta, una fine della storia che non è per niente naturale.

Tutta la narrazione può essere riassunta in una frase della protagonista “Non c’è niente che si possa dire, immagino, di una felicità perfetta, impeccabile e senza ombre; niente, salvo la certezza che dovrà finire”.

Coe, in questa storia “tutta al femminile” dove gli uomini sono decisamente relegati al ruolo di spettatori, si concentra soprattutto sul tema della maternità, da quella negata ad una coppia lesbica, a quella rifiutata da almeno tre donne – di tre generazioni diverse – diventate madri (di figlie femmine) – loro malgrado.

C’è molta retrospettiva in questo romanzo, c’è sensibilità e anche premonizione.

È una storia di donne, di madri e di figlie attraverso tre generazioni nell’Inghilterra dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. Un lettore sostiene che questo è un romanzo sulla distanza, poiché racconta la violenza dell’amore negato, del conflitto sotterraneo, di legami rifiutati o mal sopportati. Una violenza che incide l’anima, goccia dopo goccia, e si trasmette alle generazioni successive. Non si tratta della maledizione delle colpe dei padri che ricadono sui figli: in questo caso è la fredda ostilità delle madri ad indurire il cuore delle figlie.

E poiché a Jonathan Coe piace chiudere i cerchi, in questo romanzo il dramma si sviluppa tra due momenti apparentemente insignificanti: la fuga incomprensibile di due cani: un antipatico e viziato barboncino di nome Bonaparte fugge all’inizio della storia, un altro cane scappa alla fine. Di mezzo ci sono sessant’anni, vite intere, storie apparentemente normali dietro alle quali si nascondono solitudini e infelicità profonde, e che appaiono quasi rassegnate, perché già scritte… fino a comporre l’intero puzzle e a farcelo guardare, alla fine, con lo smarrimento di chi ha seguito tutta la traiettoria compiuta dal destino.

E noi lettori ci siamo affannati con Rosamond, immagine dopo immagine, per trovare un senso, una ragione comprensibile, una rivelazione che renda la storia di queste donne accettabile, forse anche giustificabile. Seduti accanto a Gill e alle sue figlie, abbiamo atteso che cadesse la pioggia, trattenendo il respiro. E alla fine, quando arriva, non troviamo le risposte sperate, non è pioggia, è una veloce, brutale grandinata e non abbiamo più il conforto dell’attesa: il colpo di scena finale (la rivelazione della morte di Imogen), è talmente forte da stordire e da convincere che davvero non esiste possibilità di interrompere quel drammatico effetto domino che perpetua l’infelicità di madre in figlia inevitabilmente.

Ma nello stesso tempo si fa strada un altro pensiero: al termine della vicenda il vero destinatario del monologo di Rosamond è Gill insieme alle sue due figlie, che lei ama e con le quali ha condiviso l’ascolto delle cassette: a loro il messaggio di Rosamond è pervenuto, entrando nelle loro vite, aprendo le loro menti e i loro cuori alla possibilità di essere felici, alla gioia della relazione e della comunicazione, alla libertà di essere se stessi. E Rosamund rimane impressa nella memoria del lettore, potremmo dire nella memoria uditiva, perché sembra davvero di sentirla raccontare, con tutte le inflessioni del parlato, le ripetizioni, le correzioni, le deviazioni… sembra di udire davvero la sua voce pacata, mai rabbiosa, mai giudicante, perché sa bene che anche il troppo amore può fare male.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Dance Dance Dance di Haruki Murakami

Se abbiamo imparato qualcosa leggendo i romanzi di Murakami, è che per gustarli pienamente bisogna distaccarsi dalla realtà e calarsi interamente tra le pagine; Dance Dance Dance è uno di quelli. Murakami ci porta per mano in un romanzo dai contorni sfumati che non è né totalmente plausibile come un thriller saprebbe essere, ma neanche totalmente irreale come potremmo aspettarci da un romanzo paranormale; è piuttosto un percorso di immersione ed emersione tra illusione e concretezza in un mondo onirico, un’opera che necessita di un profondo coinvolgimento spirituale, in cui una visione troppo realistica ne sminuirebbe quasi il sapore.

Difficilmente si può inquadrare questo romanzo in un unico genere, si possono riconoscere le componenti noir e thriller, ma queste si intrecciano ad altri temi cardine del romanzo di formazione, in particolare la descrizione del lungo processo di cambiamento che coinvolge il protagonista. Un percorso interiore che passa attraverso morti all’apparenza senza spiegazione, viaggi on the road, eventi dalle tinte paranormali e continui rimandi a un mondo onirico e difficilmente comprensibile.

La vicenda è narrata in prima persona, ambientata negli anni ’80. Il protagonista è un giornalista 34enne che sente di stare vivendo una vita inutile. Nemmeno il lavoro lo soddisfa. È un freelance impegnato in un compito che lui ritiene, con distacco ironico, socialmente utile, di spalatore di neve culturale, che accetta di scrivere articoli di nessun interesse per una società capitalistica avanzata in modo da riempire vuoti temporali e informativi. Sente che la vita gli sta scivolando via, senza che lui abbia combinato nulla di sostanziale. Per dare una svolta alla sua esistenza, seguendo un sogno ricorrente, torna al Dolphin Hotel, un albergo dove, tempo addietro, aveva passato un periodo in compagnia di Kiki, squillo di lusso dalle orecchie perfette e conturbanti, ora scomparsa. Un albergo a cui si sente legato in modo particolare, come se esso fosse il centro della sua esistenza o comunque il punto da cui ricominciare. Quando torna al Dolphin Hotel, però, trova un luogo diverso, se non opposto a come lo ricordava. Al posto del vecchio edificio, simbolo del Giappone tradizionale, ne è sorto un altro, ultramoderno e immenso, immagine del Giappone attuale e del mondo capitalistico, dotato di bar e ristoranti e gestito da un personale efficiente e distaccato. Il nuovo Dolphin Hotel, del vecchio, ha conservato solo il nome. Ma c’è ancora qualcosa, un’energia sinistra che si muove all’interno delle sue stanze, dei suoi corridoi… Eventi spiegabili ed inspiegabili (l’incontro con l’uomo pecora) si susseguono da questo punto, sempre sospesi tra la realtà ed una inquietante dimensione parallela.

È un romanzo apparentemente incomprensibile. Sappiamo che i temi principali sono quello dell’abbandono e quello della perdita, che in Murakami sono costanti: dalla ex moglie, alle amanti fino agli amici nessuno è fisso nella vita del protagonista. Poi la svolta, con il Dolphin Hotel. Un viaggio paranormale, incontri, riscoperte. Altrettanto incomprensibili, certo. Ma nella narrazione notiamo un tono differente, una diversa percezione della realtà, una consapevolezza più matura dei sentimenti e delle relazioni, forse una più ferma volontà di voler vivere davvero. Ecco, probabilmente è questo ciò che voleva dirci Murakami, raccontarci la presa di coscienza di un indolente trentaquattrenne che non ha ancora capito come “connettersi” con la realtà e che alla fine di mirabolanti avventure forse riesce nel suo obiettivo Come? Danzando, senza pensare troppo.

“Danzare è la tua unica possibilità. Devi danzare, e danzare bene. Tanto bene da lasciare tutti a bocca aperta. […] Finché c’è musica devi danzare!”

È proprio l’uomo pecora che si fa portatore del messaggio finale che in quest’opera di Murakami, a differenza di molte altre da lui scritte, si palesa in tutta la sua grandezza. Un messaggio di speranza, un incoraggiamento a non lasciarsi sfuggire quanto di bello la vita può ancora offrire e a danzare sulle note della nostra vita, sempre e comunque.

Il gruppo ha sottolineato inoltre come in Dance Dance Dance la musica è la protagonista nascosta della narrazione, essendo costante nelle pagine del libro e accompagnando i personaggi per tutta la storia attraverso l’ascolto della radio, lo scambio di dischi o una birra gelata in un piano bar. La colonna sonora, composta da musica internazionale, prevalentemente anni Settanta/Ottanta, aiuta i personaggi a dormire o a pensare e delinea l’atmosfera del romanzo.

Lo stile di Murakami è piacevole e scorrevole, e riesce, nonostante lunghe digressioni e accurate descrizioni, a non risultare pesante ma a raccontare a pieno la sua storia e a catturare il lettore perché attiva la curiosità. È una scrittura brillante nei dialoghi (di grande realismo), ironica, dettagliata e pignola nel descrivere le cose belle della vita: bere bene, con particolare attenzione a cocktail e drink, guidare belle macchine, viaggiare, abbronzarsi al sole e fare surf, innamorarsi, sentire buona musica, mangiare e inventare nuovi cibi. I personaggi sono sfaccettati e interessanti, i loro pensieri, percezioni le relazioni non sono mai prevedibili: dal nostro protagonista (senza nome) e i suoi affondi introspettivi, alla tredicenne Yuki in grado di percepire altre realtà, alla ironica Yumiyoshi, receptionist dell’hotel, a Gotanda tormentato attore di successo, a Dick North, poeta americano senza braccio.

Questo libro andrebbe letto subito dopo “Nel segno della Pecora” in quanto ne rappresenta il seguito.

Leggi la pagina 21 di questo libro.