Terre promesse di Milena Agus

In questo breve e intenso romanzo, tre generazioni si succedono tra partenze e ritorni, storie di anime alla ricerca di qualcosa o qualcuno che spesso non trovano. Fra i tanti personaggi (alcuni non del tutto delineati) Felicita è indubbiamente la protagonista e si distingue per il suo carattere esageratamente ottimista, troppo buono e generoso, tanto che per alcuni lettori è una figura poco verosimile.

Ma Felicita è come un personaggio delle favole, sa che esiste sempre il lieto fine, sa che la felicità con l’accento esiste, bisogna solo saperla vedere, ad esempio essere buoni per lei significa essere felici.

Questo personaggio travolgente ci contagia con il suo entusiasmo, con la gioia di vivere a dispetto di tutte le sciagure, nella convinzione che in  ogni persona, anche la più terribile, si nasconde un lato positivo, e infatti Felicita intesse relazioni con chiunque, contamina tutti con la sua bontà che non è buonismo, anche noi lettori che a questo punto comprendiamo il senso del titolo del libro: Terre promesse, al plurale, sono le mete che attendono ognuno di noi, e non è detto che siano luoghi fisici, dobbiamo comunque imparare, come fa Felicita, a saperle vedere all’orizzonte.

Il vero tema del libro è infatti la ricerca, la speranza che non si arrende mai: temi declinati in parole scelte, nel consueto stile asciutto di Milena Agus che non tutti i lettori hanno apprezzato.

Tra le pagine amate, segnaliamo quelle in cui la nonna vede il mare per la prima volta, diffidente e prevenuta prima, e poi lentamente conquistata: <il mare l’accolse come accoglie tutti i pesci fuor d’acqua…con un passo da ragazza raggiungeva la riva, si toglieva le scarpe, le calze, e se ne stava con i piedi nell’acqua. Una volta che il mare era in buona, le circondarono i piedi tanti pesciolini, e si curvò a osservarli meglio>.

Questa stessa pagina contiene il messaggio del libro: <Felicita era sicura: la nonna aveva capito che la terra promessa non era poi così distante dal posto in cui aveva vissuto tutta la vita, e in fondo bastava un piccolo sforzo per superare ciò che la allontanava dal suo solito mondo e la portava in un mondo straordinario, lì accanto>.

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La vita davanti a sè di Romain Gary

È la storia di Momò, ragazzino arabo affidato a Madame Rosa, ex prostituta ebrea, scampata al campo di concentramento, che per un incerto compenso tiene a pensione un numero variabile di “figli di puttana”. Rosa, con l’età, è diventata così grassa che rischia l’infarto ogni volta che deve fare i sei piani per raggiungere la sua soffitta. Momò, voce narrante, racconta di sè e di quel mondo multietnico che lo circonda, in un ininterrotto monologo che spesso diventa flusso di coscienza e che per alcuni lettori è risultato un po’ pesante.

L’intreccio, debole, coincide con la vicenda biografica di Momò, da lui stesso narrata non linearmente ma con continui andirivieni nel tempo. È un libro terribile e sconvolgente, per l’asprezza della vita di Momò, ma nello stesso tempo tenero e romantico, in cui si alternano amore e disagio, generosità e cinismo. E nonostante il contesto infernale e gli accadimenti dolorosi che si avvicendano, la lettura è divertentissima, esilarante, e richiama per certi versi Pennac.

Rosa è alla fine della sua vita, Momò ce l’ha tutta davanti, e ne ha paura, però sa come affrontarla, non si arrende mai, sa trovare sempre una via d’uscita, e grazie all’affetto di Madame Rosa a lui unita da un legame più forte di quello del sangue, grazie all’aiuto del signor Hamil, vecchio venditore di tappeti musulmano, del dottor Katz e della strepitosa madame Lola, trans senegalese, ha imparato che non si vive senza amore. Le ultime parole del libro sono infatti “bisogna voler bene”. Molto apprezzate alcune frasi definite da una lettrice “titaniche”, come quelle in cui Momò dice <io non ci tengo ad essere felice, preferisco ancora la vita. La felicità è una bella schifezza e una carogna e bisognerebbe insegnarle a vivere>.

Originale la scelta del punto di vista del ragazzino che sa affrontare con forza e lucidità e anche leggerezza temi assolutamente spinosi come l’eutanasia, la solitudine e l’abbandono in cui versano gli anziani malati.

Madame Rosa e il signor Hamil che “la natura fa crepare a fuoco lento”, attraverso gli occhi di Momò si trasfigurano: diventano belli, preziosi, indispensabili e scoviamo la bellezza in mezzo alla loro vecchiaia. Lo sguardo disincantato e insieme tenero del piccolo Momò fa di questo libro una storia di formazione faticosa e coraggiosa, mai retorica né sdolcinata.

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Lezioni di piano di Jane Campion

Prosegue il percorso tra film e libri con “Lezioni di piano”. Il libro in questo caso nasce sull’onda del successo del film “The Piano” del 1993, che vinse la Palma d’oro a Cannes e tre Oscar come miglior sceneggiatura originale, attrice protagonista (Holly Hunter) e non protagonista (Anna Paquin, appena undicenne).

Il film narra la storia di Ada McGrath e di sua figlia Flora e del loro viaggio in Nuova Zelanda nel 1850, dove la giovane donna scozzese è data in sposa al possidente terriero Alistair Stewart. Ada è muta dall’età di sei anni per motivi sconosciuti e attraverso il suo amato pianoforte e con la lingua dei segni, interpretata da Flora, comunica con il mondo esterno. Giunta sulla spiaggia, il marito non vuole trasportare il piano fino alla loro casa attraverso la foresta, provocando nella donna un allontanamento dall’uomo fin dal loro primo incontro. Sarà poi il socio in affari del marito, Georges Baines, ad appropriarsi del piano e attraverso di esso a entrare in relazione con Ada. La passione travolgente tra i due li porterà in Inghilterra dopo traumatici eventi e trasformazioni interiori che sconvolgono tutti i protagonisti.

Nel film i tre protagonisti emergono quasi dal nulla, sappiamo pochissimo di loro e del loro passato: con immagini potenti e suggestive la regista li fa muovere e agire come vittime di una forza soggiogante, quella dell’eros, che non sono preparati ad affrontare.

Il romanzo che la regista ha scritto successivamente con Kate Pullinger aggiunge dettagli e va più a fondo nel delineare i personaggi, dando loro un passato e uno spessore prima assenti. Perché Ada è muta? Di chi è la figlia che la accompagna nel suo viaggio in Nuova Zelanda, verso un marito sconosciuto sposato per procura? E chi è veramente Baines, l’inglese affascinato sia dalla cultura dei Maori che dal pianoforte di Ada? Il romanzo dà una voce ai silenzi di Ada e ai turbamenti di Baines, si cala dentro gli occhi dei personaggi e non si limita a vederli da fuori.

La sensibilità che ispira tutta l’opera è decisamente contemporanea: Ada è una donna forte, che non scende a compromessi – una vera e propria eroina della volontà, fin da quando, a sei anni, ha deciso di non parlare più – e che scopre come il linguaggio dei corpi sia equivalente a quello della musica. Un personaggio quindi seducente, fuori dagli schemi e davvero sorprendente se calato nell’epoca vittoriana in cui si muove.

Ma forse il vero protagonista della storia è il pianoforte, attorno cui  ruotano i vortici emotivi dei personaggi ed elemento centrale degli sviluppi narrativi.

Il film è stato considerato da tutti molto efficace: sono piaciuti i personaggi e gli attori che li hanno impersonati, la fisicità e sensualità i rapporti tra loro, le immagini potenti e suggestive della natura (su tutto domina l’acqua, in tutte le sue forme), la colonna sonora di Michael Nyman, la forza e il valore del silenzio che emerge in molte scene.

Il libro solo a tratti riesce a suscitare le emozioni della pellicola e, se ci aiuta a comprendere meglio le psicologie dei personaggi, toglie però mistero e fascino alla storia, così potente nel film.

Leggi la pagina 21 di questo libro.