L’ibisco viola, di Chimamanda Ngozi Adichie

Ancora un libro che ha riscosso il favore e l’apprezzamento di tutti i lettori, come si è dimostrato nella ricca e vivace discussione che ha generato.

Enugu, Nigeria: Kambili (giovane timidissima e sottomessa) e Jaja (suo fratello più grande) hanno un padre invidiato da tutti. Ricchissimo ma generoso, isolato dalla sua gente alla quale però volentieri distribuisce cibo e soldi, è anche un membro di spicco della comunità cristiana, e non manca mai a una celebrazione con i suoi oboli, il suo esempio specchiato, la sua religiosità severa: odia le tradizioni pagane della sua terra al punto che impedisce ai figli di frequentare suo padre, il loro nonno, perché l’uomo non si è convertito al cattolicesimo ma si ostina a professare la fede dei suoi avi. In un Paese sull’orlo della guerra civile e in procinto di cadere in mano a una ottusa giunta militare, il padre di Kambili, attraverso le pagine del quotidiano di cui è proprietario, conduce una battaglia incessante e coraggiosa per la legalità, i diritti civili, la democrazia. Ma questa famiglia perfetta, sotto la superficie, nasconde il marciume di un segreto terribile: l’uomo che tutti stimano e invidiano è in realtà uno psicopatico violento, che ama infliggere punizioni corporali terribili ai suoi familiari in nome della religione e della moralità, il ritratto di un integralista radicale e fanatico che agisce e infierisce sempre nella piena convinzione di fare il bene altrui. Tra silenzi, ipocrisie, interessi economici e dolore, la famiglia della giovane Kambili fa finta che il problema non esista, finché – quando il fratello Jaja inizia a ribellarsi alla figura paterna – la situazione precipita, fino all’imprevedibile finale, forse l’unico possibile, per porre fine alla crudeltà dell’orco. Un finale che per alcuni è risultato deludente, per altri invece, pur nella sua vaghezza, lascia spazio alla speranza, al riscatto, a nuove possibilità di vita e di futuro.

La saga familiare di questa straordinaria giovane scrittrice ci porta in una terra lontana, ferita dall’imperialismo e dal colonialismo, nel mezzo di un faticoso cammino di integrazione culturale tra i modelli  occidentali, primi tra tutti quelli religiosi, e le tradizioni più arcaiche. È una realtà lontana dalla nostra, eppure nello stesso tempo così vicina da sorprenderci, quando scopriamo le  forti analogie  che toccano i meccanismi del potere, della violenza di genere, dell’autoritarismo patriarcale.

Il punto di svolta nella vicenda avviene quando il padre Eugene si lascia convincere dalla sorella Ifeoma a portare i suoi figli da lei, a Nsukka. Kambili e Jaja, a casa della zia hanno paura di qualsiasi cosa, persino di parlare, ma grazie alla travolgente allegria della zia, dei suoi figli e di padre Amadi, cominceranno a capire cosa significa divertirsi, essere liberi, avere una propria opinione.

Il punto di vista interno della narratrice, Kambili, rende ancor più convincente questo libro che è anche un riuscito romanzo di formazione: Kambili e Jaja all’inizio del romanzo sono due ragazzini intimoriti dalla figura del padre, impacciati con gli sconosciuti e incapaci persino di ridere; nel corso della storia incontrano una serie di personaggi che faranno loro capire che nella vita si può essere un buon cristiano ma allo stesso tempo si può essere una persona allegra e divertente, e soprattutto si può essere se stessi, senza paura. Le figure chiave di questa crescita interiore dei ragazzi sono tre: zia Ifeoma, Papa-Nnukwu (il nonno) e il sacerdote padre Amadi.

Zia Ifeoma è una giovane professoressa universitaria già vedova, con tre figli a carico: nonostante le difficili condizioni economiche, in quella casa si ride, si scherza, si è spontanei. E lei incoraggia i figli a superare gli ostacoli infondendo in loro fiducia, così Kambili scopre che i cugini riescono a “saltare sempre più in alto” perché la zia li convince che possono farcela, invece lei e Jaja superano l’asticella più alta solo perché hanno il terrore di non farcela, il terrore del giudizio del padre e delle sue tremende punizioni.

Papa-Nnuku è il padre di Eugene, ma è un pagano ai suoi occhi, e i figli non possono stare con lui più di un quarto d’ora all’anno, per non essere contaminati dalle sue storie sugli antenati, animali parlanti e leggende popolari. Infine, padre Amadi, un sacerdote che non veste sempre in modo tradizionale, che gioca a calcio con i ragazzini di strada, che prende a cuore Kambili e Jaja e cerca di far loro capire che la religione non è solo imposizione, punizioni e preghiere, ma permette tante cose che fanno piacere a Dio, come ballare, cantare e scherzare. E soprattutto, padre Amadi aiuta Kambili a esprimere se stessa e la sua vera indole.

E poi c’è l’immagine – bellissima – dell’ibisco viola: quando Jaja vede per la prima volta il giardino di zia Ifeoma, nota quel fiore che non aveva mai visto prima; la zia spiega che quella varietà d’ibisco è stata creata. Jaja prende le talee con sé e le pianta a Enugu, nel giardino del padre; contro ogni aspettativa, l’ibisco attecchisce e fiorisce nonostante l’harmattan, il vento secco e polveroso che spazza  il Golfo di Guinea in inverno. L’ibisco diventa il simbolo di ciò che zia Ifeoma, il nonno e padre Amadi hanno regalato a Jaja e Kambili: la libertà di vivere, che cresce e si rinforza nonostante il vento avverso della volontà di Eugene.

Scritto in modo magistrale, il libro fa commuovere, ridere e riflettere; fa conoscere qualcosa in più sulla Nigeria post-coloniale e fa capire perché ogni fanatismo è pericoloso e va combattuto.

In questa storia è dirompente il ruolo delle donne, in particolare zia Ifeoma, con il suono cordiale della sua risata, la sua camminata veloce, le labbra coperte di un brillante rossetto, il tono irriverente, l’idea che la vita di una donna, talvolta, possa iniziare quando finisce un matrimonio, la schiena dritta, l’onestà e la sfrontatezza di dire in faccia ciò che si pensa. Anche se sei una donna. Anche se sei nata a Enugu, Nigeria.

Tutto era iniziato lí: il giardinetto di zia Ifeoma accanto alla veranda del suo appartamento di Nsukka aveva cominciato a spazzare via il silenzio. Mi sembrava come l’ibisco viola sperimentale di zia Ifeoma: raro, con un sottofondo fragrante di libertà. Una libertà di essere, di fare”.

Leggi la pagina 21 di questo libro.     

Ninfee nere, di Michel Bussi

“Tre donne vivevano in un paesino. La prima era cattiva, la seconda bugiarda e la terza egoista.”

Con questo incipit forte ed efficace si apre “Ninfee nere”, romanzo che ha catturato dalle prime pagine i lettori, entusiasti del congegno diabolico costruito dall’autore.

A Giverny in Normandia, il villaggio dove ha vissuto e dipinto il grande pittore impressionista Claude Monet, una serie di omicidi rompe la calma della località turistica. La voce narrante è la voce di una donna molto anziana, che dalla sua torretta dove ora abita, vede e sente tutto; lei è la nostra narratrice onnisciente che toglie il velo dagli occhi del lettore mentre cerca di risolvere il puzzle da cui però mancano i pezzi principali che saranno forniti solo al termine di questa avventura. Al centro della storia, una passione devastante attorno alla quale girano le tele rubate o perse di Monet (tra le quali le Ninfee nere che l’artista avrebbe dipinto prima di morire).

Si tratta di un giallo atipico, perché i delitti sono il pretesto per indagare sulle vite e i segreti dei personaggi, in un labirinto di specchi dove i confini tra realtà e illusione e tra passato e presente sfumano.

Durante la lettura molti lettori hanno percepito la sensazione che qualcosa non quadrasse, che l’autore stesse nascondendo qualcosa, arrivando perfino a dubitare della reale esistenza di alcuni personaggi; ma nessuno aveva intuito l’inganno congegnato dall’autore, che solo nel finale scopre l’arcano con la rivelazione che i fatti che sembrano accaduti in pochi giorni si dipanano in realtà in quasi ottant’anni. L’autore lascia varie tracce per depistare il lettore, a partire dalla presentazione iniziale dei tre personaggi femminili, che scopriremo essere un’unica donna, nelle sue diverse fasi della vita.

Ha sorpreso l’abilità e il mestiere di Bussi nell’orchestrare questo complesso intreccio in modo magistrale, fino al finale sorprendente, totalmente imprevedibile anche per i più esperti e scafati lettori di gialli: nelle accurate descrizioni dei paesaggi e delle ambientazioni, l’autore non si lascia mai sfuggire particolari che potrebbero dare indicazioni temporali.

Ogni personaggio del romanzo è un vero enigma, non ci sono eroi, ognuno ha ombre e debolezze. Come nell’arte impressionista, anche i personaggi sono smarginati, si confondono, si mescolano.

La coppia di ispettori sembra rispettare il clichè di tanti gialli: Laurenç single, spericolato, con la sua moto e il giubbotto di pelle; Sylvio quasi papà, accorto, misurato. Proprio il personaggio dell’ispettore Laurenç, istintivo, intuitivo e passionale, ha deluso alcuni lettori per la sua fuga improvvisa e l’abbandono della donna che tanto amava.

L’inserimento di approfondimenti e aneddoti legati alla storia dell’arte è stato un aspetto originale e apprezzato da tutti: la vita e le opere di Claude Monet sono elementi fondamentali della trama e hanno ridestato una curiosità, spingendo molti lettori a cercare le immagini dei quadri e dei luoghi descritti da Bussi. L’Impressionismo, grazie alla bellezza estetica, facile da cogliere per chiunque, è divenuto talmente popolare e commerciale da farci dimenticare il valore storico artistico di questa corrente. Il romanzo in qualche modo ci induce a riabilitare l’Impressionismo e a riposizionarlo nella storia dell’arte, andando ben oltre le riproduzioni inflazionate su tazze e calendari: i pittori impressionisti, e in particolare Monet con le sue ninfee sempre più smarginate, possono essere considerati precursori dell’arte astratta, avendo influenzato pittori americani astratti come Mark Rothko a Jackson Pollock.

È un libro che lancia quindi molti stimoli e curiosità trasversali, sull’arte e suoi luoghi. Bussi è molto accurato nei dettagli storici e paesaggistici, tanto che le strade e le vie del paese come i negozi e le case sono fedeli alla reale località turistica e sembra quasi di sentire il profumo dei giardini e di vederne le pennellate di colore.

Il romanzo è stato interpretato come un viaggio al femminile: le protagoniste vivono una sensazione di prigionia, di arrendevolezza e remissività, e sono tutte desiderose di evasione, di libertà, di una vita che non sia quella dipinta per loro da un marito troppo geloso e possessivo o da una madre protettiva, una vita destinata inesorabilmente a spegnersi nel rimpianto delle occasioni perdute o di un amore soffocato sul nascere. In “Ninfee nere” le vite stroncate non sono quindi soltanto quelle delle vittime assassinate ma anche quelle private della loro essenza, della libertà di sognare e di trasgredire, incorniciate e rinchiuse senza via di scampo in un mondo apparentemente idilliaco ma realmente angusto e deprimente.

Il finale riporta un po’ di luce e speranza nella vita grigia della protagonista, che finalmente si guarda allo specchio, senza odiarsi e abbozza un sorriso: si è finalmente liberata dal pesante peso del passato e può “ricongiungersi” con le sue parti più innocenti e romantiche. Per alcuni è un finale perfetto, altri invece hanno trovato un po’ forzato e sdolcinato questo lieto fine.

Da segnalare anche il bell’adattamento a fumetti del romanzo, realizzato dallo sceneggiatore Fred Duval e dal disegnatore Didier Cassegraine.

Leggi la pagina 21 di questo libro.