Eleanor Oliphant sta benissimo di Gail Honeyman

Eleanor Oliphant ha trent’anni, una laurea in lettere classiche e da nove lavora in una agenzia di graphic design. La sua vita è scandita da una routine fin troppo definita, compresi i riti della bottiglia di vodka con cui si lascia andare solo il venerdì, e la telefonata con la mamma il mercoledì sera. Poi, improvvisamente la sua abitudinarietà viene stravolta da alcuni avvenimenti, o meglio incontri: con l’uomo della sua vita, o almeno lei così crede, con Raymond suo collega della sezione computer e tecnologia, e col vecchio Sammy. Da questo momento si innesca una serie di circostanze che consentono di conoscere il passato di Eleanor, ma non linearmente, bensì attraverso frammenti disordinati che occorre ricomporre come si fa con un puzzle, ed è così che, pagina dopo pagina, il lettore viene sempre più coinvolto e rapito dalle vicende, tanto da non riuscire a staccarsene: questo hanno raccontato le lettrici di Pagina 21, tutte riconoscenti per le belle emozioni ricevute da questo libro. Al contrario di quanto afferma paradossalmente il titolo del romanzo, non è affatto vero che Eleanor sta benissimo, anzi, la sua è una storia drammatica di violenza, abbandono, crudeltà che l’ha segnata profondamente, l’ha rinchiusa in una sorta di prigione invisibile che è la sua solitudine, e la perseguita costantemente nonostante i suoi sforzi per costruirsi una vita normale. Per Eleanor l’ancora di salvezza sarà quel Raymond che a lei era apparso tanto insignificante, capace di vedere dietro l’apparenza la vera signorina Oliphant e di aiutarla a salvarsi. Bisogna riconoscere che gli ingredienti messi sul piatto dall’autrice comportavano qualche rischio, per esempio scivolare nella narrazione favolistica con tanto di lieto fine risolutivo, oppure indulgere nel facile moralismo di certi messaggi clichè sul valore dell’amicizia e dei rapporti umani.

Ma la storia funziona, scorre in modo convincente ed apre ad una cauta speranza: alla fine Eleanor trova un compromesso accettabile fra l’essere se stessa, essere parte di una comunità e, soprattutto, liberarsi dai fantasmi del passato. E questo accade perché l’autrice guida il racconto in modo intelligente, non cadendo mai nel patetico, nel macchiettismo, nell’effetto facile, e soprattutto dominando uno stile narrativo fluido, limpido e scorrevole, una buona orchestrazione dell’intreccio e una grande capacità di introspezione che ci restituisce personaggi mai banali: tutti elementi che rendono questa storia coinvolgente, capace di commuovere, emozionare, anche divertire, soprattutto far riflettere.

Due esempi per tutti: la complessità della vita di Eleanor è simboleggiata dal cruciverba giornaliero che fedelmente risolve, mettendo al loro posto le definizioni come vorrebbe fare con la sua esistenza. L’altro esempio si riferisce all’uomo che Eleanor, sull’autobus, osserva e giudica sprezzantemente, lasciandosi condizionare dai suoi pregiudizi, e invece scopre in quell’omino una dote a lei sconosciuta, la gentilezza.

Se dovessimo “catalogare” questo libro dal punto di vista del “genere” a cui appartiene, potremmo dire che è una sorta di romanzo di formazione fuori tempo, poichè la protagonista non è una adolescente che sta crescendo, attrezzandosi per la vita adulta. Eleanor è già adulta, eppure i suoi comportamenti sono spesso quelli di una ragazzina sprovveduta e confusa, come accade con la sua infatuazione per il cantante. L’autrice ci vuol dire che per diventare pienamente donna adulta Eleanor deve ripercorrere e comprendere le tappe di un percorso che le è stato sottratto, deve imparare da capo cosa significa costruirsi un progetto di vita.
“Suppongo che una delle ragioni per cui siamo in grado di continuare a esistere nell’arco di tempo assegnatoci in questa valle verde e azzurra di lacrime è che, per quanto remota possa sembrare, c’è sempre la possibilità di un cambiamento.”

In questo passaggio è contenuto un messaggio importante che diventa la risposta al tema centrale del libro: la solitudine, dramma silenzioso del nostro presente, soprattutto questo presente di restrizioni che stiamo vivendo. Eleanor, con la consueta franchezza, si pone una precisa domanda:

“A che cosa servivo io? Non avevo dato nessun contributo al mondo e non ne avevo ricavato nulla. Non illumino una stanza quando entro. Nessuno spasima per vedermi o sentire la mia voce. Non provo la benché minima pena per me. È semplicemente la constatazione di un dato di fatto”.

Eleanor ci fa capire che quanto noi vediamo, molto spesso non è la vera essenza di una persona, ma una corazza costruita per proteggerci dalle difficoltà della vita. Ed è a metà del libro che si capisce quanto lei abbia bisogno di un rapporto umano, bisogno di parlare e aprirsi.

Tanti pensieri di Eleanor sono gli stessi che hanno attraversato le menti di tutti, almeno una volta, per questo come lettori a un certo punto ci ritroviamo a fare il tifo per lei dalla prima all’ultima pagina, perché questa ragazza merita di stare davvero bene, ma anche perché c’è un pezzo di Eleanor in tutti noi. È un romanzo capace di parlare a chiunque nella vita si sia sentito solo o abbandonato: c’è molto dolore in questa storia, ma quello che emerge sopra ogni cosa è un profondo omaggio ai legami umani e a quanto di vitale può regalarci un’amicizia.

Eleanor fa venire voglia di riprendere in mano la propria vita.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Hotel Silence di Audur Ava Ólafsdóttir

Jónas ha un dono: sa aggiustare le cose, le sa riparare. Questa volta però qualcosa si è rotto per sempre e Jónas non sa più come tornare indietro, ricomporre i pezzi di un’esistenza che sembra perduta. Il quarantanovenne islandese, divorziato, con una figlia di cui ha appena appreso di non essere il padre biologico, non riesce a trovare più un senso alla vita, è deluso, stanco e solo, scisso tra il ricordo di ciò che era un tempo e il baratro di un futuro che non riesce più a intravedere. Ha perso la volontà di vivere, è in piena crisi depressiva e vuole suicidarsi. Non vuole procurare un trauma alla figlia, e con molta freddezza analizza i vari tipi di suicidi, per arrivare alla decisione di morire all’estero per non disturbare amici e parenti. Il tema della volontà del suicidio è affrontato in modo diretto, senza retorica, moralismi o stigma, rispecchiando il contesto nordico in cui si svolge la storia. Con un andamento della trama un po’ surreale e grottesco, Jonas, senza avvertire nessuno, decide di partire per il suo ultimo viaggio: la meta è l’Hotel Silence dove ha stabilito di porre fine alla sua esistenza, in un paese povero (mai svelato), dove la guerra da poco ha lasciato il posto alla carestia. Jónas si avventura solo con la sua cassetta degli attrezzi, che di solito utilizza per riparare e invece questa volta contiene ciò che gli servirà per uccidersi, un cambio di vestiti e i suoi diari. Forse non è del tutto convinto di uccidersi, forse quello che sta per intraprendere è un viaggio fisico e interiore, estremo e doloroso alla ricerca di se stesso.

Quello che troverà al suo arrivo lo spiazzerà, aprendogli un nuovo squarcio di senso, una prospettiva attraverso la quale poter guardare alla sua vita in modo più libero. L’Hotel Silence, dove “il silenzio sgorga come una montagna”, si trova in un paese martoriato dalla guerra civile, dove la distruzione e la mancanza di un domani sono ben visibili e dove chi è sopravvissuto tenta con tutte le sue forze di restare attaccato alla vita, di ricominciare. Tra questi ci sono Maí e Fifi, i due giovani gestori dell’hotel, e il loro bambino, occasioni di un incontro che per Jónas ha il sapore di una promessa di rinascita. L’hotel, decadente e bisognoso di manutenzioni, è popolato da pochi e misteriosi clienti. Tutti hanno perso qualcuno e qualcosa, i superstiti sono donne bambini e uomini derelitti, traumatizzati.

Sarà in questa nuova dimensione, insieme a questi nuovi compagni, che Jónas inizia un percorso di rinascita, a partire dalle sue capacità e competenze manuali che sembrano quasi avere proprietà salvifiche. L’impegno concreto, il lavoro diventa la via per riprendere in mano la sua vita e tornare a percepire la sua connessione all’umanità: aggiustando e riparando ogni cosa, piano piano sembra riparare anche la sua anima andata in pezzi. La sofferenza altrui relativizza la propria e Jónas comprende come le proprie “cicatrici” siano ben poco rispetto a quelle delle altre persone, che hanno vissuto la guerra, tra mine antiuomo, violenza e annientamento.

La rigenerazione di Jónas avviene con il lavoro ma anche attraverso un serrato dialogo interiore e la rilettura dei diari di gioventù che diventano la chiave per capire la sua vita presente.

Questo romanzo originale, dallo stile lieve e poetico nonostante la cupezza dei personaggi e delle tematiche, ha intrigato e affascinato molti lettori, che sono rimasti colpito da tanti aspetti diversi che il romanzo tocca con levità, a volte solo accennandoli. Sono piaciute molte le parti che si soffermano sui corpi dei personaggi, una corporeità descritta in modo chirurgico più che sensoriale: sono corpi sofferenti, imperfetti, con cicatrici sulla carne. E proprio il titolo originale del romanzo è “Cicatrici. Affascinante è l’ambientazione decadente dell’Hotel Silence e dei suoi abitanti, degli spazi nascosti, dei segreti di ognuno e del suo magazzino che sembra contenere l’intera storia del paese conservata attraverso gli oggetti. Molto potenti le descrizioni della natura e del senso di isolamento geografico e fisico estremo vissuto in Islanda. Esce forte e diretto il messaggio di condanna della guerra, la ricerca della solidarietà, il senso e celebrazione della vita, nonostante tutto.

L’autrice descrive con arguzia letteraria realtà orrende e squallide, mescolate ad un tono a volte cinico e sornione, quasi ad alleggerire l’atmosfera e la tensione creatasi.

Anche i temi più drammatici sono affrontatati con tono lieve e una sottile ironia. Per alcuni lettori questa leggerezza ha reso il romanzo piacevole e scorrevole ma forse è mancata per alcuni un’analisi introspettiva più profonda: Jónas ci dice poco di quello che pensa e prova, lascia parlare le azioni che nella loro nettezza e sinteticità acquistano per sottrazione una carica quasi lirica.

Lo sguardo del protagonista è scarno, impietoso, lucidissimo, a volte profondamente deluso ma mai cinico. Anche nell’apparente rassegnazione permane in lui una sorta di strenuo e naturale attaccamento alla vita che lo rende in grado di accogliere l’imprevisto e di fargli pian piano spazio. Le mura dell’Hotel Silence sono il luogo fisico in cui Jónas è rimesso di fronte a se stesso, circondato da un silenzio assordante che svela il vero. Ed è proprio in questo silenzio che l’uomo trova il coraggio di scrivere alla figlia: “Ci sono ancora, sono ancora qui, sto cercando di capire il perché”. Grida un senso, grida la vita.

Leggi la pagina 21 di questo libro.