Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi

Questa lettura (per alcuni rilettura) è stato un gradevole ritorno a un classico della letteratura italiana. Come dice Italo Calvino « D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima ».

È il caso di “Cristo si è fermato a Eboli”, in cui Carlo Levi rielabora i suoi ricordi del periodo trascorso in Lucania tra il 1935 e il 1936, in confino per motivi politici. Il protagonista viene destinato al paesino di Gagliano, isolato e profondamente lontano dal mondo moderno e dallo sviluppo culturale e tecnologico della società. Si tratta di un confronto tra un giovane intellettuale, scrittore e pittore, esponente della borghesia torinese, coinvolto nella lotta al fascismo e vittima delle persecuzione del regime e una realtà contadina e arretrata, legata a tradizioni pagane e superstizioni varie, e succube di una borghesia parassitaria, che vive sulle spalle di gran parte della popolazione locale, priva di qualsiasi strumento di ribellione e riscatto.

Gli abitanti di Gagliano colpiscono subito la fantasia dello scrittore, che, mettendo a frutto la sua laurea in medicina, cerca di sollevare le difficili condizioni di vita dei contadini, falciati dalle malattie e dalla malaria. L’attenzione antropologica dell’autore per questa realtà così distante dal suo mondo di provenienza si mescola con la narrazione dei mesi di confino. Levi descrive le figure più emblematiche che incontra (dalla domestica Giulia, che svolge anche la professione di “strega”, fino al parroco don Trajella e al “sanaporcelle”, a metà strada tra un mago e un veterinario) e fissa anche alcuni caratteri di fondo della cosidetta “questione meridionale”. Per il contadino lucano, infatti, lo Stato unitario è un’entità astratta e sconosciuta, spesso visto come un nemico terribile e incomprensibile, che impone la sua presenza e al quale bisogna solo rassegnarsi.

La descrizione di questa mentalità, di questa estraneità a un’idea di stato e di società civile è resa molto bene e risulta ancora oggi attuale e sconvolgente.

Se l’autore è incuriosito e attratto dal mondo contadino, in modo altrettanto forte trasmette ribrezzo per i pochi rappresentanti della classe borghese, cui imputa le disastrate condizioni di vita del paese. Questi personaggi, spesso collusi col potere fascista, sono descritti in maniera caricaturale, insistendo sulle loro manie comportamentali o sulla loro miseria etica.

Oltre a queste profonde osservazioni storico-politiche e alla raffinata analisi sociologica, il libro ci offre descrizioni molto suggestive del mondo fisico di Gagliano: sono descrizioni fotografiche, in cui con l’occhio del pittore, Levi ci fa vedere il paesaggio aspro e drammatico della campagna lucana, i visi intensi e i corpi sofferenti dei suoi abitanti.

“Spalancai una porta-finestra, mi affacciai a un balcone, dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco”.

La lettura ha un ritmo lento e meditativo, che ci riporta a un tempo lontano; richiede un impegno e una concentrazione “antica” rispetto ai nostri ritmi moderni. Ma ha regalato molta soddisfazione alle lettrici, ripagate da una scrittura bella, precisa, descrittiva tanto da rendere visibili i luoghi e i personaggi, e poi capace di percorrere generi diversi, dalla memorialistica al diario al saggio storico-sociale.

Ci siamo confrontati su come è affrontata da Levi la situazione di confinato: l’autore non descrive in modo diretto le sue emozioni, il suo racconto sembra a tratti freddo, i sentimenti sembrano congelati o bloccati, probabilmente perché l’autore rielabora questa esperienza a distanza di anni. Ma tra la righe, in modo indiretto, emerge forte il disagio e l’angoscia per la privazione della libertà: le passeggiate quotidiane entro i confini imposti, l’insofferenza per la grettezza e meschinità delle autorità locali, la censura attraverso cui deve passare la corrispondenza, la dolcezza malinconica per la visita della sorella.

Nel libro ci sono tutte e tre le passioni di Levi: la scrittura, la pittura e anche la medicina. Questo scrittore che è anche pittore e medico, nelle sue pagine racconta servendosi di volta in volta dello sguardo del pittore e anche del medico, sempre con un amore sconfinato verso le cose, gli oggetti e le persone. Come dice Sartre di lui: “medico dapprima, poi scrittore e artista per una sola identica ragione: l’immenso rispetto per la vita”.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu

Incuriositi dalla definizione di Mario Rigoni Stern che elogiò il libro («Tra i libri sulla Prima guerra mondiale Un anno sull’Altipiano di Emilio Lussu è, per me, il piú bello») abbiamo scelto questo titolo, un vero e proprio classico.

Si tratta di un libro di memorie di Emilio Lussu: scritto tra il 1936 e il 1937, racconta, per la prima volta nella letteratura italiana, l’irrazionalità e insensatezza della guerra, della gerarchia e dell’esasperata disciplina militare al tempo in uso. L’Altipiano è quello di Asiago, l’anno dal giugno 1916 al luglio 1917. Un periodo di continui assalti a trincee inespugnabili, di battaglie assurde volute da comandanti imbevuti di retorica patriottica e di vanità, di episodi spesso tragici e talvolta grotteschi, attraverso i quali la guerra viene rivelata nella sua dura realtà di «ozio e sangue», di «fango e cognac». Con uno stile asciutto e a tratti ironico Lussu mette in scena una requisitoria contro l’orrore della guerra senza toni polemici, descrivendo i sentimenti dei soldati, i loro drammi, gli errori e le disumanità e ottusità che avrebbero portato alla disfatta di Caporetto.

Lussu, che pure era stato un acceso interventista e si era battuto con coraggio durante tutta la guerra, assume un atteggiamento fortemente critico nei confronti dei comandi militari dell’epoca. La guerra venne condotta male da generali impreparati e presuntuosi, incapaci di rendersi conto dei propri errori, nonché decisi spietatamente a sacrificare migliaia di vite umane pur di conquistare pochi palmi di terreno.

Il libro è di difficile classificazione all’interno di un genere letterario, perchè dal punto di vista storico la narrazione presenta una serie d’incongruenze e lacune: non è quindi un romanzo, né un saggio storico o un memoriale vero e proprio come dice esplicitamente l’autore: “Il lettore non troverà, in questo libro, né il romanzo né la storia. Sono ricordi personali, riordinati alla meglio e limitati ad un anno…”.

Per alcuni la lettura è risultata faticosa, gli aneddoti e gli episodi che si susseguono in modo frammentato, tra vita di trincea e battaglie, hanno un po’ annoiato per la ripetitività e lentezza, per la mancanza di un vero e proprio sviluppo narrativo e per uno stile letterario povero. Pur raccontando eventi tanto drammatici, sono mancate ad alcuni le emozioni dei personaggi: le descrizioni risultano piatte, fredde. Si sente un distacco del narratore da ciò che descrive, forse conseguenza della distanza temporale dei fatti nel momento in cui Lussu scrive il libro. Anche la terminologia tecnica, i dettagli militari, gli spostamenti sul territorio, gli elenchi, i nomi, i vari gradi militari hanno creato una distanza e reso più difficile il coinvolgimento nella lettura.

Sicuramente esce molto potente il messaggio antimilitare: la guerra è descritta come un susseguirsi di azioni e comandi irrazionali, di regole assurde, di gerarchie esasperate, di demagogia vuota e stupida, di inettitudine degli alti comandi. I soldati vengono mandati al massacro da ufficiali folli e del tutto inadeguati. I tremendi errori dei comandanti fanno sì che, sempre più spesso, vengano considerati dai combattenti come i loro veri nemici. L’alcol scorre a fiumi e la follia e l’idiozia governa tutto, dai bombardamenti del fuoco amico alle corazze Farina.

In questo dramma emergono il normale eroismo della gente comune, gli ammutinamenti dei soldati, l’umanità degli ufficiali provenienti dal mondo civile, più umani e vicini alla truppa. Alcune pagine e alcune situazioni sono state molto apprezzate: il riconoscersi esseri umani tra nemici che si sparano a pochi metri l’uno dall’altro, la presa di coscienza che blocca il soldato e lo fa tornare a essere uomo e non più macchina per uccidere.

Alcuni hanno apprezzato il piglio ironico, tragicomico che usa Lussu nel tratteggiare alcuni personaggi o situazioni ridicole e grottesche.

Dal racconto di Lussu emergono anche tutte le contraddizioni di uno Stato senza Nazione, nel quale si ritrova l’odio verso la gerarchia ma l’amore verso il “combattimento giusto” (in vari episodi la truppa mostra un senso di onore e orgoglio di appartenenza al battaglione), riuscendo così a dimostrare allo stesso tempo odio e amore verso la patria, ripulsa della guerra ma al tempo stesso etica del combattente giusto.

Un merito indiscutibile è quello di costituire una testimonianza di una delle guerre più atroci della storia. Va apprezzato lo sforzo di Lussu, che non era uno scrittore, di ripercorrere queste memorie dolorose. Francesco Rosi ha tratto dal libro una libera trasposizione cinematografica, il bellissimo film “Uomini contro” con Gian Maria Volontè. Secondo alcuni, il film riesce a creare un coinvolgimento emotivo molto più forte del libro, trasmettendo tutta l’ansia, l’angoscia e la rabbia verso l’assurdità e idiozia delle gerarchie militari.

Leggi la pagina 21 di questo libro.