Giovedì 4 marzo 2021
È proprio il caso di dire che questa volta il libro scelto ha suscitato un acceso dibattito tra le lettrici, tutte concordi nel definirlo “strano”, tantissime perplesse, tante rimaste a metà lettura, due decisamente stroncanti nell’averlo escluso come lettura in questo momento particolarmente buio, poche positive nel loro giudizio complessivo… insomma un Veronesi che non ci si aspettava, e comunque deludente rispetto alle attese (la ristampa lo definiva come straordinario libro profetico).
Borgo San Giuda, in Trentino, è un paesino di quarantadue persone divise in quattro famiglie più un prete. Come tanti piccoli paesi ai piedi delle Dolomiti ha una piazza, la chiesa con il campanile a punta e la canonica, uno spaccio, un bar, le case, il bosco a ridosso. Una cartolina lo vorrebbe così: l’aria linda e pungente, l’odore di resina e di stalla, i colori dei frutteti, i gesti silenti e amici. In realtà Borgo San Giuda “non” esiste, e il nome della valle è comunque il suo destino: “Era un posto che non esisteva quasi, e nessuno riuscirà mai a capire perché quello che è successo sia successo proprio lì, dove non succedeva niente”, perché Borgo San Giuda è il luogo della negazione di ogni verità. Tutto ciò che vi accade è nel segno della privazione: incomprensibile è che l’albero ghiacciato sia rosso di sangue, irrimediabile che quel sangue sia di undici vittime, inconcepibili le modalità della morte di quelle undici persone, illogica la certezza che una bambina sia scampata a quella strage eppure nessuno la reclami. In questo non luogo verosimile Sandro Veronesi fa succedere una storia surreale che diventa una grande metafora della morte e del destino.
I due protagonisti sono anche coloro che cercano le risposte ai tanti enigmi: don Ermete, incarnazione della Fede, cerca una risposta religiosa; la psichiatra Giovanna Gassion si appella alla Ragione e alla scienza.
Il lettore è trascinato fin dalle prime pagine in un gioco di lettura raffinato e ambizioso che imbastisce un giallo che si trasforma in un romanzo esistenziale e poi in un thriller, in una seduta psicoanalitica e diventa infine una corsa a perdifiato sugli sci, lontano dalle abitudini che ci soffocano e incontro alla vita che fornisce sempre una nuova occasione, in mezzo a una natura buona che ci fa anche sperare.
Solo alla fine si disvela il vero intento dell’autore: convincere che il mistero del male della morte si può riparare solo con l’accettazione, e questo fa Giovanna con ai piedi un paio di sci, immersa in un lungo flusso di coscienza.
È un finale che rifiuta le convenzioni tipiche di un romanzo, ossia fornire un senso o delle risposte o quantomeno una chiave di lettura: e questo può sicuramente irritare alcuni lettori. Come sostiene qualche lettrice, però, riletto la seconda volta, il finale interessa poco, sappiamo già che molte domande rimarranno senza risposta e quindi ci si concentra su altri aspetti e la lettura ne guadagna in modo significativo. Ad esempio ci si sofferma su quella pagina in cui, richiamando Freud, si dice che qualunque lutto, qualunque male, si stempera, si elabora, anche solo col passare del tempo, scoprendo che la nostra “libido”, voglia di vivere può vincere. Purtroppo questo “attraversamento del male” è totalmente individuale, i personaggi sono molto soli in questa ricerca di risorse dentro di sé, e tali rimangono alla fine, come a dire che non è possibile riporre speranza nella comunità, nelle relazioni umane come salvezza. Altre lettrici sostengono anche che Veronesi ha un po’ “esagerato” nel trattare temi così ardui, da altissima letteratura (pensiamo a Camus e a La peste), investendo tutto il suo talento in uno stile fin troppo ricercato che non compensa, alla fine, la poca credibilità di questo barocco impianto narrativo.
Ma diamo direttamente la parola a Veronesi, come “autodifesa”: «Nel 2010 io ero stato molto chiaro nel dire che non era un thriller, anche se ne utilizzavo gli stilemi. Mi criticò chi si aspettava di vedere il mistero svelato. Io invece mettevo l’accento sull’inesplicabilità del male e a quello mettevo in relazione tutti i moltissimi personaggi, una settantina, che avevo messo al mondo. Ma il romanzo è nato con tutt’altra esigenza e tutt’altri scopi. È un libro sull’accettazione, sulla salvezza dalla follia e anche sulla non salvezza. Borgo San Giuda è una specie di presepe. Ma eravamo noi quelle persone. Per me era abbastanza semplice: si trattava di metaforizzare la morte, in successione rapida, di entrambi i miei genitori senza che si potesse far nulla, senza che la scienza potesse dire perché si erano presi il cancro tutti e due insieme, perché non c’era una cura».
Chi ha apprezzato il libro ne ha trovato gli agganci al nostro presente e lo ha letto come metafora di quello che sta succedendo ora, con questo male misterioso che alla fin fine dobbiamo imparare ad accettare se non vogliamo scivolare nella follia.
È certamente vero che anche nella nostra realtà avanzatissima ci sono problemi e dubbi e dilemmi a cui né la scienza, né la filosofia, né la fede possono dare risposte convincenti, e può accadere che sia proprio la Letteratura a riuscire a farlo… non in questo caso tuttavia, almeno per la maggior parte delle lettrici di Pagina 21.
Leggi la pagina 21 di questo libro.
La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer
La famiglia Karnowski è una saga familiare che, attraverso il racconto di tre generazioni, David, Georg e Jegor Karnowski, mette in scena un grande affresco della società ebraica dal 1860 al 1940. Il romanzo ha colpito i lettori, coinvolti dalla storia famigliare e incuriositi dallo sfondo storico e culturale. I.J.Singer riesce infatti a raccontare mirabilmente la storia dell’Ebraismo in Occidente, parallelamente al fenomeno dell’antisemitismo e del nazismo, raccontato nella sua drammatica ascesa, senza mai indugiare nell’autocommiserazione e vittimismo.
La saga comincia con David, il capostipite, che all’alba del Novecento lascia lo shtetl polacco in cui è nato, ai suoi occhi culla dell’oscurantismo, per dirigersi alla volta di Berlino, forte del suo tedesco impeccabile e ispirato dal principio secondo cui bisogna «essere ebrei in casa e uomini in strada». Il figlio Georg, divenuto un apprezzato medico e sposato a una gentile, incarnerà il vertice del percorso di integrazione e ascesa sociale dei Karnowski; percorso che imboccherà però la fatale parabola discendente con il nipote: lacerato dal disprezzo di sé, Jegor, capovolgendo il razzismo nazista in cui è cresciuto, porterà alle estreme conseguenze, in una New York straniante e nemica, la contraddizione che innerva l’intera storia familiare.
I tre Karnowski sono molto diversi fra loro e vivono la propria cultura e le proprie tradizioni in modo completamente differente. Si passa dall’essere un ebreo “illuminista”, dedito quasi esclusivamente allo studio dei testi, all’essere un ebreo ribelle, che osa infrangere le regole e le tradizioni, fino ad essere un ebreo che, nel tentativo di rinnegare le proprie origini e il proprio sangue, finisce per perdere se stesso. In realtà tutti e tre cercano, a modo loro, di prendere le distanze dalla loro “ebraicità”. Questo tema è interessante anche letto in chiave contemporanea, pensando ai processi di integrazione delle diverse generazioni di immigrati.
I.J.Singer descrive con minuzia le relazioni famigliari, i contrasti tra padri e figli, l’amore materno, il rapporto coniugale e ci conduce nelle case dei personaggi che prendono vita pagina dopo pagina, in tutte le loro sfaccettature e contraddizioni. Il capostipite David risulta rigido, altero e sprezzante mentre il figlio Georg, nel tentativo di mantenere unita la famiglia, dimostrerà maggior diplomazia e disponibilità al compromesso, riuscendo a legare con la famiglia della moglie e al tempo stesso accettando di far circoncidere il figlio per mantenere la tradizione ebraica e non deludere la madre. Le donne Karnowski, seppur ben caratterizzate, non emergono particolarmente confermando il loro ruolo subalterno di mogli, madri, figlie in cui erano relegate da una cultura patriarcale. Il personaggio più prorompente è invece Elsa Landau, uno straordinario esempio di emancipazione femminile. Donna, ebrea e comunista nella Germania del primo dopoguerra, Elsa con impegno, talento e una forza di volontà eccezionale riuscirà a farsi strada prima in campo medico e poi in politica, dedicando la sua vita al miglioramento del suo Paese.
Sono tanti i personaggi che, come Elsa, ruotano intorno alla famiglia Karnowski; tra tutti giganteggiano il rozzo commerciante Solomon Burak, che con leggerezza e solidarietà accoglie tutti a casa propria, e l’energico e bizzarro dottor Landau che cura tutti i pazienti senza pretendere nulla in cambio. Questi personaggi rappresentano vari aspetti di una comunità ebraica variegata, un mondo brulicante e complesso, caratterizzato da varie stratificazioni sociali e rivalità fra gli stessi ebrei di origini geografiche diverse. Per alcuni lettori le parti dedicate alle tradizioni, riti e regole religiose sono state un po’ noiose, altri invece sono rimasti affascinati e si sono avventurati con curiosità in questo mondo.
Il romanzo è stato pubblicato nel ’43, quando ancora non si conosceva nella sua completezza il destino tragico degli ebrei e l’orrore della Shoah. Dal racconto di Singer emerge l’antisemitismo latente e diffuso nella società e si colgono i germi di ciò che verrà, come se l’autore avesse un’intuizione di quello che sarebbe successo, rendendocelo così, forse, ancora più terribile. L’arrivo del nazismo è presentato in sordina, come una nebbia che arriva lentamente e sottilmente e, piano piano, invade tutti i sensi: si affermano gli “uomini con gli stivali”, contribuendo a cambiare l’atteggiamento dei gentili verso gli ebrei; poi arrivano le prime violenze; in seguito i primi divieti. Questo cambiamento di clima non è percepito come un pericolo immediato, né come qualcosa che potrebbe portare a quello che porterà. Pur non usando mai la parola “nazismo”, Singer riesce a comunicare l’angoscia e il terrore del nuovo clima politico, rappresentato dal personaggio del dott. Zerbe, in cui mania di grandezza, ambizione e opportunismo producono risultati di crudele persecuzione.
Per alcuni lettori il romanzo affronta in modo troppo superficiale le vicende storiche, omettendo eventi importanti e lasciando il racconto storico troppo scarno e depotenziato.
Colpisce il destino di profughi dei Karnowski, condiviso da tantissimi ebrei, sempre in viaggio verso ovest, dalla Polonia alla Germania fino a New York. L’immagine dell’ebreo ambulante con la bisaccia risulta essere, alla fine, universale e molto vicina a quella di qualsiasi essere umano (“Nessuno può sfuggire al proprio destino…”), grazie all’empatia che lo scrittore riesce ad instaurare tra personaggi e lettore. I personaggi rinnegano le origini, quasi a voler cancellare uno stigma, ma alla fine è sempre quell’essere ebrei che li salva, che li rende parte di un’unica grande famiglia, i cui membri possono fuggire, sbagliare, rinnegare, ma che alla fine sono costretti a riconoscere e accettare con orgoglio.
Il romanzo ha dato molti spunti di riflessioni collegati all’attualità, segno di un’universalità che fa di questo libro un vero classico. Sono tanti gli affondi profondi sulla natura umana e sulla possibilità del cambiamento: “Nessuna cosa al mondo è immutabile, tutto si trasforma, perfino la solida materia, figurarsi la parola degli uomini.” E infatti molti rapporti contrastati si riconcilieranno.
È interessante poi il ritratto di New York, metropoli brulicante e dinamica che accoglie profughi da tutto il mondo, ma non proprio quella terra promessa tanto mitizzata: Georg infatti sarà accolto da un meschino ostracismo da parte della comunità medica e anche Jegor non troverà nessun tipo di spazio per un suo riscatto personale.
Bello e toccante il finale che l’autore lascia un poco sospeso: al di là del destino tragico di Jegor, esce forte il valore della famiglia che riaccoglie sempre i figli e i cui rapporti non si deteriorano mai, pur dopo strappi e divergenze.
Grazie alla narrazione accurata, ricca di dettagli, di situazioni, di storia, e alla scrittura impeccabile, elegante, fluida, arguta e a tratti ironica, La famiglia Karnowski, è stato letto con gusto dai lettori conquistati quasi al completo da questo romanzo dimenticato, un piccolo capolavoro ritrovato.
Leggi la pagina 21 di questo libro.