Giovedì 5 agosto 2021
Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald
Ricca e animata la discussione, perché il gruppo si è accalorato nel ricercare in queste poche ma dense pagine una moltitudine di significati, di segni, di spunti, di messaggi spesso molto attuali, nonostante si tratti di un testo del 1925. Il giudizio positivo è stato prevalente ma non unanime, perché una parte di lettrici ha ritenuto il libro un “capolavoro per pochi”, piatto e noioso nell’intreccio e troppo negativo nella rappresentazione dei personaggi e delle relazioni umane.
La vicenda è ambientata negli Stati Uniti dei ruggenti anni ’20, l’era del Proibizionismo e del jazz, e il romanzo è una fotografia della società americana di quel tempo, caratterizzata da una crescita industriale enorme e da un’accentuazione della divisione tra ricchi e poveri (immigrati, neri, agricoltori). A quella società, dalla quale è contemporaneamente attratto e disgustato, Fitzgerald indirizza la sua critica più acuminata: un paese che nella sua parte più ricca gode di un’infinità di beni di consumo, di agi che in qualche modo riescono a cambiarne la mentalità, generando una visione della vita distorta, vuota, tale da rendere del tutto superficiali e inesistenti le relazioni umane. La storia di Gatsby, apparentemente sfavillante, è in realtà tragica, malinconica, e intrisa di una satira amara e pungente che colpisce i falsi valori di quelle folle gaudenti che frequentano le sue feste. Dietro al successo, al benessere, ai soldi, all’emancipazione e all’avanguardia culturale si nascondono corruzione, ipocrisia, indifferenza, solitudine, amoralità. Quell’ambiente è magistralmente descritto da questa battuta di Daisy: <Che cosa facciamo dopo pranzo? E che cosa facciamo domani? E nei prossimi trent’anni?>, dandoci la dimensione del vuoto da riempire di queste vite allo sbando.
Per cogliere appieno il messaggio di Fitzgerald, tuttavia, bisogna andare oltre le consuete aspettative di lettori: in questo romanzo non c’è una trama coinvolgente, una storia appassionante da cui è difficile staccarsi, personaggi nei quali identificarsi positivamente. La stessa storia d’amore che sembra il filo conduttore, in realtà non è tale, perché l’amore di Gatsby è un sogno irrealizzabile, un’illusione e Gatsby nemmeno si accorge della reale presenza della donna amata accanto a lui, perso com’è nella rievocazione del sogno che l’ha tenuto avvinto cinque anni.
Tutto il romanzo è incentrato sulle illusioni, sui ricordi, sul passato, e su come si vorrebbe far rivivere quest’ultimo in una maniera diversa al fine di cambiare il presente. Simbolo di tutto ciò è una luce verde prossima alla casa di Daisy che Gatsby osserva di continuo, sospirando e ripensando ai momenti felici passati con la donna, con la convinzione di poter farli rivivere. Mala luce verde al di là della baia rimane a una distanza incolmabile. Per questo il libro è unanimemente definito come un’allegoria del sogno americano di pace benessere e felicità destinato a frantumarsi, a breve, con la depressione del 1929.
Nei confronti dei personaggi il lettore rimane spiazzato: nessuno di loro è davvero positivo, sono tutti molto ambigui, in particolare la frivola Daisy, e tutti quelli della sua cerchia: <Erano gente sbadata, Tom e Daisy, sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nei loro soldi e nella loro noncuranza o qualunque cosa fosse che li teneva insieme, e lasciavano che fossero altri a pulire lo sporco che lasciavano>. E pensiamo a quel personaggio particolare che è la folla, all’elenco delle ricche famiglie invitate da Gatsby, un elenco pieno di corrosivo sarcasmo, perchè i nomi sono quelli di animali o di piante o nomi volgari; ed è la stessa folla che accorre dopo l’incidente di Myrtle, curiosa, pettegola e in fondo indifferente.
Anche lo stesso Gatsby è un personaggio contraddittorio: è “grande” perché possiede il dono della speranza, la disponibilità romantica a credere nel futuro e a lavorare sodo affinché la sua aspirazione a un vago avvenire di felicità si realizzi. Ma è anche vago, falso, corrotto: è l’incarnazione stessa di quel sogno a cui sacrificare ogni cosa, che per lui si identifica con Daisy. Egli vive solo per un sogno ed è disposto a morire per esso. La villa, le macchine, il denaro, nulla ha importanza; ed è questa ossessione che non gli darà scampo portandolo a una sorta di autodistruzione. Gatsby è anche il più solo di tutti i personaggi, da quando lo si vede per la prima volta nell’ora del crepuscolo fermo sul prato della sua lussuosa villa mentre guarda con gli occhi fissi la luce verde, al momento del suo funerale.
Commuove quindi il fallimento esistenziale di un uomo con una vitalità così grande e disperata, un personaggio dal quale non potremmo sentirci più lontani quando è all’apice del suo potere, e che tuttavia ci conquista nel momento in cui mette a nudo la sua verità, la sua illusione, il suo bisogno di essere amato.
Sin dall’inizio Gatsby ci sfugge, avvolto com’è da un alone di mistero. Si intuisce che possa vendere titoli rubati, o fuori borsa, oppure che sia un contrabbandiere e si sia arricchito vendendo illegalmente liquori durante il Proibizionismo, ma grazie al montaggio di Fitzgerald non siamo mai sicuri. Solo di un’attività di Gatsby il lettore è certo: è dedito a ricostruire l’illusione di un sogno immane.
Gatsby è sicuramente il protagonista del libro, tuttavia per molti lettori il personaggio più importante e anche più dinamico e capace di evolvere, è il narratore Nick Carraway: non a caso Fitzgerald non ha usato un narratore esterno, onnisciente, ma è Nick stesso che racconta la vicenda facendone parte come se fosse sempre al fianco del lettore, scoprendo insieme a lui le coseda due fonti principali: Jordan Baker e Gatsby stesso. È da Jordan, amica di vecchia data di Daisy, che Nick apprende dell’amore fra Gatsby e Daisy, mentre è lo stesso Gatsby a raccontare al narratore la sua adolescenza (l’incontro con Dan Cody che gli cambierà la vita e infine gli anni della guerra).
Nick alla fine del romanzo è maturato, è cresciuto, ha capito che in fondo è Gatsby ad essere il migliore di tutti, di quel mondo di “porci” dal quale Nick sceglie di allontanarsi, abbandonando New York.
Tutti concordi sull’alto valore della penna di Fitzgerald, sulla sua bravura nel montaggio, in soli nove capitoli, di un quadro fatto di dettagli, di dialoghi fulminanti e modernissimi, di simboli che spesso si accompagnano ai colori: la luce verde, l’automobile gialla, il quartiere grigio cenere, e quegli occhi enormi del cartellone pubblicitario che sembrano essere lo sguardo di un nuovo dio: il consumismo, la pubblicità invasiva. Il romanzo si costruisce in un gioco di specchi, in ognuno dei quali c’è solo una parte dell’immagine. Fitzgerald non descrive, mostra. Introduce i personaggi attraverso l’azione e il dialogo e la sua scrittura sollecita in continuazione i sensi di chi legge attraverso un linguaggio raffinato, spesso poetico, a volte acuto e graffiante, chiudendo il romanzo con un’immagine universale ed eterna in cui tutti ci possiamo riconoscere come Gatsby a lottare senza sosta in avanti, remando, pur se l’impresa pare impossibile: <Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato>.
Leggi la pagina 21 di questo libro.
Stupore e tremori di Amélie Nothomb
Raccontare un’esperienza lavorativa da incubo con autoironia e un filo di follia è sicuramente pane per i denti dell’irrefrenabile Amélie Nothomb, che in questo breve romanzo autobiografico ci regala pagine esilaranti il cui stile e contenuto rifuggono dai luoghi comuni senza cedere neanche per un attimo al vittimismo. In Stupore e tremori ci racconta il suo anno trascorso in una prestigiosa multinazionale giapponese: con l’assunzione come traduttrice presso la Yumimoto, la giovane Amélie sembra coronare il suo sogno di tornare a vivere in Giappone, dove era nata e cresciuta fino all’età di cinque anni. Il sogno si infrange presto contro la dura realtà della vita in azienda, dove i rapporti sono improntati alla totale e acritica sottomissione verso i propri superiori e alla rivalità quasi fanatica fra i dipendenti, soprattutto fra le poche donne.
Amélie, spinta da innocente buona volontà ed entusiasmo, commette gaffe ed errori imperdonabili e rapidamente si ritroverà a subire rimproveri e declassamenti fino a svolgere compiti inutili e umilianti, come fare più e più volte migliaia di fotocopie senza poter usare il vassoio di alimentazione automatica, servire caffè fingendo di non conoscere il giapponese, oppure essere lasciata senza un qualsiasi compito, per indurla prima possibile a chiedere le dimissioni. Non è necessario conoscere a fondo la cultura giapponese per immaginare che gli eventi descritti, per quanto estremizzati, siano del tutto reali e che siano stati causa di un grande smarrimento per la giovane protagonista, incapace di adattarsi alle spietate dinamiche aziendali e alle rigidità relazionali ed espressive proprie della cultura giapponese. Così la brillante scalata all’insuccesso di Amélie sarà assoluta e culminerà con l’affidamento della cura e igiene dei bagni pubblici dell’azienda, mansione accolta con un certo filosofico sollievo: “Quando si lustrano i bagni sporchi, il vantaggio è che non c’è da temere di cadere più in basso”.
La vicenda, pur drammatica, viene narrata con un’acuta ironia tramutando le innumerevoli situazioni grottesche in irresistibili siparietti comici. In ogni pagina traspare la personalità dell’io narrante che alle vessazioni e ai soprusi contrappone sempre fiducia in sé e forza di volontà, reagendo alle umiliazioni in modo originale e un po’ masochistico: “Com’era bello vivere senza orgoglio e senza intelligenza. Mi ibernavo”.
Amélie, intrappolata in questo labirinto kafkiano di consegne assurde e soprusi, non perde la sua dignità e resiste. Anche nelle mansioni più umili è irreprensibile e volenterosa, esaltata tra l’altro dall’attrazione per Fubuki, sua diretta superiore, donna bellissima e sadica che diventa la sua principale persecutrice e stronca prontamente sul nascere l’unica opportunità di carriera che le viene concessa. Il solo obiettivo di Amélie diventa quello di non rassegnare le dimissioni, che agli occhi dei colleghi sarebbe la chiara conferma della pigrizia e lassità occidentali. Per evitare questo disonore è disposta a fronteggiare situazioni inusitate con ammirevole – o sarebbe meglio dire nipponica – ostinazione, tanto che ci sembra che lei abbia finalmente raggiunto almeno il suo terzo obiettivo: quello della martire.
Un’alternativa dignitosa al licenziamento potrebbe essere il suicidio, visto che nel paese del Sol levante nessuno ha da ridire su quest’atto estremo. E in effetti Amélie tutte le volte che può si lascia mentalmente cadere dall’enorme vetrata del piano in cui lavora, il quarantaquattresimo (lo chiama “lanciarsi nel paesaggio”). La finestra diventa “la frontiera tra lo sciacquone e il cielo, tra i gabinetti e l’infinito”, e immaginare di lanciarsi nel vuoto osservando se stessa e la città è un atto di contemplazione che rimpiangerà una volta portato a termine il suo anno lavorativo: “Finché esisteranno finestre l’essere umano più umile della terra avrà la sua parte di libertà”.
Questo romanzo non è soltanto un curioso resoconto della differenza tra Oriente e Occidente, ma anche un ritratto della mentalità giapponese di cui cogliamo luci e ombre: l’autrice mette in luce il fascino e la meraviglia di una cultura lontana, i cui rigidi e incomprensibili dogmi ne costituiscono certamente la ricchezza, ma anche il limite. Una realtà in cui ogni eccesso di emozioni e desideri, ogni speranza, eccetto quella del lavoro, vengono annientate, non può che suscitare la riprovazione, o peggio, l’indignazione del lettore occidentale che è stato nutrito dai valori dell’individualismo, del libero arbitrio, della libertà di espressione, mentre lì tutto è sottomesso al bene dell’azienda, individuo incluso.
Fubuki è il prodotto tipico dell’educazione impartita alle donne giapponesi, a cui fin dall’infanzia vengono tarpate le ali del sogno con una serie infinita di regole da rispettare.
Questo ci spiega la Nothomb, e c’è sempre un baluginare malizioso e sferzante, anche nelle frasi più remissive, che non concede l’onore della vittoria a chi le sta di fronte, perché Amélie è un essere vivo e pensante dotato di un arguto spirito di osservazione. Ma lo sguardo di Amélie non è mai accusatore e grazie al suo racconto scorgiamo anche nei personaggi più grotteschi che popolano l’ufficio, tracce di delicata sensibilità, che si esprime in piccoli gesti gentili, sottili forme di solidarietà, sussurri di sincera umanità.
Tutti lettori sono rimasti positivamente sorpresi da questo romanzo, dallo stile semplice e incisivo tutto giocato sui contrasti, ricco di citazioni colte e sofisticati giochi di parole. L’ambientazione giapponese ha acceso molte curiosità sulle differenze culturali tra Occidente e Oriente, mentre le tematiche legate al mondo del lavoro hanno stimolato un confronto serrato sui contesti aziendali, sul mito della produttività e le storture che provoca, sul senso del dovere e dell’attaccamento al lavoro portato all’eccesso. Toccante anche il legame affettuoso che l’autrice esprime per la lingua giapponese, sempre affascinata dal significato nascosto delle parole e dalla bellezza della lingua e della scrittura. Particolarmente crudele quindi risulta l’imposizione aziendale di non utilizzare il giapponese e anzi di dimenticare di conoscere questa lingua tanto amata. Sarà perciò un dono di grande valore ricevere un biglietto di felicitazioni per la prima volta in giapponese da parte di Fubuki, una volta che tornata in Belgio Amélie pubblicherà il suo primo romanzo. Ma il dubbio rimane: si tratta di un tardivo riconoscimento sincero o è forse l’ultimo degli atti formali e doverosi compiuti da Fubuki per convenzione con sottile perfidia?
Leggi la pagina 21 di questo libro.