Gita al faro di Virginia Woolf

Riassumendo il senso della discussione che ha particolarmente coinvolto il gruppo, una lettrice ha dichiarato convinta che questo non è un libro “come gli altri” ed esige un altro approccio, un diverso modo di leggere, un modo che comporta fatica e sforzo per entrare nella visuale della scrittrice che ha profondamente cambiato il romanzo moderno. Per alcuni la fatica ha vinto sulla motivazione e ha fatto sì che il libro sia stato abbandonato; per altri invece ha permesso di raggiungere con soddisfazione l’obiettivo (magari facendosi aiutare dall’audiolibro), e di poter affermare, alla fine, che questa opera ha lasciato un segno e merita senza dubbio la definizione di capolavoro che la letteratura le assegna, anche dal punto di vista della forma espressiva che va oltre la prosa e in molte pagine diventa poesia.

Il romanzo si apre sulla vacanza estiva che la famiglia Ramsay sta compiendo sull’Isola di Skye, nelle Isole Ebridi. La signora Ramsay assicura al figlioletto James che il giorno dopo andranno sicuramente al faro, ma la sua affermazione è bocciata dal signor Ramsay, il quale afferma che sarà impossibile per colpa del maltempo.

Il lettore si attende a questo punto uno sviluppo dell’intreccio, ma scoprirà che in realtà non esiste trama, gli eventi sono minimi, il tempo narrativo è completamente scardinato in un andirivieni continuo tra passato e presente, è dilatato enormemente per raccontare poche ore oppure è ristretto in alcune righe per narrare dieci anni; i fatti si mischiano ai pensieri dei personaggi che invadono disordinatamente la vicenda, costringendo il lettore a chiedersi spesso chi stia pensando cosa!

Ai Ramsay, in questa vacanza, si sono uniti vari amici e colleghi, fra cui la giovane Lily Briscoe, una pittrice che sta tentando di dipingere un ritratto della signora Ramsay, con il figlio James ai suoi piedi. Lily è piena di dubbi riguardanti la sua arte e la sua vita, dubbi alimentati anche dalle affermazioni di Charles Tansley, altro ospite dei Ramsay, il quale sostiene che le donne non sono capaci né di dipingere né di scrivere.

La breve parte centrale del romanzo rappresenta la devastazione lasciata da lutti e guerra, descrivendo in modo poetico e toccante la casa rimasta vuota e silenziosa per anni, abbandonata alle intemperie, una casa che sembra quasi popolata dagli spiriti e dalle voci di chi vi trascorse attimi di felicità.

Nella parte finale del libro, alcuni dei membri della famiglia tornano alla loro casa delle vacanze di dieci anni prima e realizzeranno finalmente il progetto di raggiungere il faro, mentre la pittrice Lily riuscirà a completare il suo quadro.

Simbolicamente il compimento del ritratto di Lily è molto importante, dato che, con esso, la Woolf sottintende di aver portato a termine anche il ritratto della propria famiglia, descritta sottilmente in alcune peculiarità dei Ramsay, tanto che la sorella Vanessa le scriverà, dopo aver letto il romanzo: “A me sembra che tu abbia tracciato un ritratto della mamma che le somiglia più di quanto avrei mai creduto possibile”.

Affrontare gli imprevisti che impediscono di realizzare un sogno, quello che per James era visitare finalmente il faro, i contrasti familiari che diventano improvvisamente stupidi e irrilevanti di fronte al grande dolore della perdita, come quella provata dal signor Ramsay alla morte della moglie con cui, pure, aveva spesso incomprensioni, soprattutto nella prima parte del libro, sono i temi principali di questo romanzo dove la psicologia è ben più importante dell’evento, e l’autrice riesce a scavare profondamente nell’animo dei suoi personaggi, mettendone a nudo sentimenti, angosce, dubbi. Che sono poi quelli di tutti noi: la paura di non riuscire a realizzarsi, di lasciare qualcosa di incompiuto, di vivere con il rimpianto.

Nonostante tutto, la fine del romanzo lascia aperto uno spiraglio positivo, dato che tutti i protagonisti, seppur con le difficoltà del caso, portano a termine quello che avevano programmato: James la gita al faro e Lily il dipinto. Una prospettiva ottimistica che, evidentemente, Virginia Woolf non sentiva propria nella vita reale,  tormentata fin dalla gioventù da forti crisi depressive e più di una volta dimostratasi incline al suicidio (si tolse infine la vita nel 1941, dopo che lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale aveva minato irrimediabilmente il suo animo già fin troppo devastato: si riempì le tasche di sassi e si lasciò annegare nel fiume Ouse, non lontano dalla casa dove abitava, lasciando una toccante lettera al marito Leonard).

Le due protagoniste sono la signora Ramsay e Lily, due donne complementari, molto diverse per i valori che rappresentano: la donna del passato, legata ai valori della famiglia e della maternità, e la donna nuova, autonoma, che rifiuta di sposarsi e trova nell’arte la propria salvezza, la realizzazione di sé. In Lily sentiamo forte la presenza di Virginia, che pure ha investito nell’arte, nella scrittura, le sue speranze di trovare un posto nel mondo o almeno lasciare traccia di sé, e memoria.  Non a caso, fra gli innumerevoli temi che il libro tocca (relazioni umane, genitori e figli, matrimonio, differenza di genere…) il tema della lettura corre come un filo sotterraneo per tutta la vicenda: la signora Ramsay legge al figlio, il signor Ramsay legge spesso… e questo per sottolineare il valore salvifico dei libri. In questa opera il faro del finale, finalmente raggiunto, proietta un’esile luce di speranza, in altri scritti successivi, invece, il quadro desolante di un secolo dilaniato da guerre, razzismo, sterminio, orrore, avrà la meglio sulla fragile personalità di Virginia.

La Woolf è stata una innovatrice radicale della narrativa novecentesca, non solo per la tecnica del flusso di coscienza o monologo interiore, l’attenzione alle profondità abissali della mente che la nuova scienza della psicoanalisi cominciava a scoprire, la disseminazione di oggetti-simbolo densi di significato (il calzerotto marrone, lo scialle, il faro stesso), ma anche perché ha tracciato per prima il sentiero di quella letteratura di genere che assegna alla donna una sua specificità fino ad allora mortificata da un mondo interamente maschile.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

La morte di Ivan Il’ič di Lev Nikolaevič Tolstoj

Questo è un libro difficile da dimenticare perché, seppur breve, il romanzo risulta talmente ricco di riflessioni sul tema della vita e della morte scandagliate attraverso le emozioni del protagonista e così denso di profondità e contenuti da rimanere per sempre impresso nel lettore.

Il romanzo, scritto 150 anni fa, risulta di una incredibile attualità, capace di indurre l’individuo contemporaneo a mettersi in guardia contro il dilagare della vanità, del cinismo e del conformismo borghese. Tolstoj, rendendoci partecipi del progressivo decadimento fisico e morale di Ivan Ilic, che si è lascito inesorabilmente persuadere dai meccanismi della società zarista, infilandosi nei suoi ingranaggi e scivolando via come se fosse il fantasma di se stesso, ci svela con singolare efficacia quel senso di solitudine dell’uomo di fronte all’ineluttabile morte.

Il romanzo racconta una lenta presa di coscienza perchè la morte, tema nevralgico del romanzo, rivela una verità che Ivan ha sempre nascosto: tutta la sua vita non è stata che una grande menzogna. Non è mai stato padrone della sua esistenza, poiché ha sempre vissuto assecondando gli stereotipi arrivisti della società. Ha scalato la gerarchia della burocrazia statale perché pensava che uno stipendio elevato, un posto prestigioso e una vita all’insegna del decoro e della piacevolezza potessero renderlo felice. Ha ripiegato la propria vita nelle mani della società; lui non ha mai vissuto, poiché la società ha vissuto al posto suo.

Per Ivan, dunque, l’affacciarsi della morte è fonte di rivelazione della mediocrità e inconsistenza della sua esistenza, vissuta all’ombra dell’alta società borghese, guidata da ideali di convenienza e ipocrisia. A testimoniarlo è la menzogna collettiva, l’indifferenza e distacco con cui familiari e colleghi gestiscono la malattia di Ivan, dandogli ripetutamente false speranze, poiché chiunque non vede l’ora di liberarsi di questo “peso”, di rimpiazzarlo nella sua ambita posizione sociale, o di ereditare qualche somma dal suo patrimonio. Non vi è alcun dispiacere o dolore sincero nelle loro parole e nei loro pensieri, ma solamente una netta ipocrisia sociale che guarda la morte di Ivan da un punto di vista puramente esteriore in modo sprezzante e superficiale. Di fatto, nessuno lo comprende, non c’è possibilità di mediazione, poiché ogni uomo pensa alla morte con freddo distacco dato che non è mai la propria, ma sempre quella altrui. La morte di Ivan Ilic ci mostra come sia più importante pre-occuparci della vita e non pre-occuparci della morte.

Per diversi partecipanti è stata una lettura “potente” e dal forte impatto, poiché questa straziante malattia diventa per il protagonista un disadattamento alla vita sociale, professionale e un cambiamento del proprio sentire e vedere il mondo circostante. Ivan vive una sorta di disfacimento della propria identità, sfiduciato nel pensiero degli altri, si abbandona a tristezza, rabbia, malinconia e solitudine, portandolo in uno stato di disperazione permanente dovuta alla scoperta della propria fine, della mortalità che non riesce per nessuna ragione ad accettare, aggrappandosi fino all’ultimo alla vita con le unghie e con i denti, come se non si trattasse in realtà dell’unica verità concessa all’uomo:

«Quell’esempio di sillogismo che aveva studiato nel manuale di logica del Kiesewetter, Caio è un uomo, gli uomini sono mortali, perciò Caio è mortale, gli era sembrato, per tutta la vita, valido solo in rapporto a Caio, e in alcun modo in rapporto a se stesso».

A questo si aggiunge un altro importante tema del romanzo, oggetto di diverse riflessioni da parte dei lettori, la solitudine con cui Ivan deve gestire l’angoscia e la vergogna causata dalla malattia e l’attesa straziante della propria morte, poiché il dolore dell’attesa risulta essere più crudele della morte in sé. L’unica persona ad avvertire il profondo disagio del protagonista è Gerasim. Un umile servo contadino la cui presenza si rivela essere un balsamo per Ivan: Gerasim, con la sua serena accettazione delle leggi della natura e l’atteggiamento compassionevole e sincero, pare essere uomo più saggio e consapevole del senso della vita ed unico personaggio puro e positivo della narrazione. Si occupa di Ivan nelle fasi in cui la malattia lo isola dal contesto relazionale, offrendogli il proprio servizio con sincero altruismo e senso di comunanza e solidarietà (“Do a te ciò che spero toccherà a me”. Di fatto, non sappiamo nulla della sua vita, non sappiamo come morirà, se anche lui in mezzo a strazianti sofferenze fisiche e morali o se accompagnato dalla stessa clemenza manifestata nei confronti del suo padrone. Ciò che però si apprezza maggiormente di questo personaggio è la semplicità delle sue azioni nel cercare quanto più possibile di alleviare il suo dolore, e la lealtà per la sua sofferenza che gli altri ipocritamente fingono con falso pietismo.

Molto discusso infine, l’ultimo capitolo del romanzo, dove vengono descritti i tre giorni dell’agonia precedenti alla morte del protagonista. Una sofferenza estrema dovuta allo strazio della malattia e al terrore. L’urlo ininterrotto di Ivan è il correlativo fisico della voce interiore che ha interrogato Ivan nelle ultime settimane della sua malattia, distruggendone ogni convinzione e speranze. Questo urlo è quanto di più vitale e sconveniente egli possa compiere. È sconveniente perché non lascia in pace i familiari, turbandone costantemente il decoro, allo stesso modo, è necessario perché guida Ivan alla decisiva presa di coscienza. Egli sa cosa bisogna fare: liberare una volta per tutte se stesso e i familiari dal peso delle sofferenze. E la paura della morte, che lo ha tormentato ogni singolo momento, svanisce, perché non c’è più nessuna morte. Quell’ ”È finita la morte” pronunciato a se stesso, può lasciare al lettore una diversa concezione sul finale: per molti la luce e il sollievo e gioia finale che assale Ivan l’ultimo istante prima di spirare può rappresentare la conferma di una conversione dell’autore.

In conclusione, c’è chi ha definito questo libro pieno di vita, una lettura che fa star bene per via del registro linguistico, che alternando uno stile graffiante e comico al malinconico e meditativo, tocca tutti gli aspetti delle emozioni umane.

Leggi la pagina 21 di questo libro.