Giovedì 7 gennaio 2021
Il giro del miele di Sandro Campani
Sulla copertina, ad accoglierci e incuriosirci, con quel suo sguardo di avvertimento, o di minaccia, è la lince, uno dei tanti animali che incontreremo nel libro, pur senza svelarsi davvero ma rimanendo come una presenza simbolica: ci conduce in una casa dell’Appennino tosco-emiliano, immersa nel buio della notte. All’interno, una bottiglia di grappa, due bicchieri, il fuoco di un camino che diffonde una luce calda e dipinge mostri sulle pareti. E due uomini, soli in una stanza, seduti al tavolo, che si scambiano silenzi, segreti, bugie e sofferenze. A scandire il tempo di quella notte, il riempirsi e svuotarsi dei bicchieri: da una parte del tavolo c’è Davide, con un matrimonio fallito alle spalle ma ancora innamorato della sua Silvia; un uomo semplice, o meglio un ragazzo fragile e insicuro prigioniero nel corpo di un adulto, che si definisce un «buono di nulla» perché privo di coraggio e determinazione. Se ha perso tutto ciò che di bello aveva costruito nella vita, è stato perché ha sempre vissuto nella paura di perderlo. Dall’altra parte Giampiero, aiutante del padre di Davide nella storica falegnameria, sposato con l’Ida praticamente da sempre.
Mentre fuori il vento infuria sempre più forte e la lince sembra aggirarsi nel bosco, i due uomini si raccontano i loro segreti, in una confessione notturna che ripercorre le loro esistenze, ognuno con la propria versione della storia: il rapporto difficile e pieno di fraintendimenti tra Davide e suo padre, e quello più intimo ma non meno silenzioso con la sorella; l’incendio che ha lasciato Giampiero con una mano carbonizzata; l’amore di Davide per le api, esseri fragili come lui, e come lui pieni di voglia di resistere; e la fine di un amore, che ha condotto Silvia lontano dal paese e ha lasciato Davide in balia dell’alcool e della violenza. La notte scivola via lenta, il dialogo prende sempre più forza, e i lettori proseguono nella storia con sentimenti diversi: c’è chi si arrende dopo poco e abbandona il libro senza esserne conquistato; c’è chi si lascia andare all’onda narrativa e nel fluire della bella scrittura arrivando alla fine, però senza entusiasmo, tanto da decretare semplicemente “non mi è dispiaciuto”; e c’è infine chi ha apprezzato sinceramente il libro, vuoi per la contestualizzazione nel nostro Appennino magistralmente descritto con le sue atmosfere, vuoi per l’affetto verso i personaggi, Davide soprattutto, che generano compassione e comprensione per le ripetute sconfitte.
Mentre le figure femminili in questo romanzo sono in secondo piano, (la stessa Silvia, pur essendo personaggio chiave, è sempre vista attraverso lo sguardo maschile), al centro ci sono due uomini, Davide e Giampiero: di questo complesso e doloroso incontro-scontro tra nature diverse, Sandro Campani restituisce una rappresentazione fine, arricchendo i dialoghi con una leggera patina dialettale e soffermandosi con attenzione sulla resa dei gesti dei personaggi, i cui pensieri si svelano nei movimenti prima – e talvolta meglio – che nelle parole. Attorno alle storie di Davide, Silvia e Giampiero si delinea un paesaggio misterioso e denso di vita, percorso da entità inafferrabili che vigilano sulle azioni degli esseri umani e ne custodiscono i segreti. E qui Campani attinge direttamente alle atmosfere campestri e paesane a lui evidentemente famigliari (vive e lavora in un paese dell’Appennino tosco-emiliano), e quello che principalmente è piaciuto ai lettori è la sua costante attenzione verso ciò che nasce dalla terra, sulla terra cresce, alla terra torna. Alberi e fiori e piante e animali popolano le pagine e spesso fungono da elementi simbolici: è lo stesso Campani che, citando il suo amato regista Lynch, dissemina nelle sue storie elementi misteriosi lasciati all’interpretazione del lettore, poiché dichiara espressamente di preferire le atmosfere ricreate con la penna alle trame narrative: ecco dunque, oltre alla lince, il noce, il legno della falegnameria e dei boschi, lo spaventoso cane del vicino che latra, l’ovile abbandonato e insanguinato… lo stesso “giro del miele” del titolo potrebbe avere significato più profondo di quello immediato (il giro in cui Davide incontra Silvia a Bologna e poi la porta al paese, inizio della loro storia).
Possiamo allora pensare che questo libro non appartenga del tutto a quel cosiddetto ciclo di “romanzi italiani di montagna” che ha inaugurato Cognetti, poiché in esso la montagna va oltre la realtà in senso stretto e acquista una valenza più ampia, metaforica.
Il gruppo si è ritrovato quasi totalmente concorde sul finale pessimistico: al termine della tormentata notte di Davide e Giampiero, appare chiaro che ogni tentativo di essere felici è una illusione, che la nostra vita è una fatica e uno sforzo che alla fine non condurrà a nulla, come la lunga chiacchierata tra i due amici, il cui fine vero e ultimo è una sorta di rassegnazione per le cose che vanno così come devono andare, senza una ragione di salvezza. I temi toccati sono molti altri (per qualche lettore sono troppi e trattati superficialmente): il rapporto padre-figlio e uomo-donna, l’amore, l’amicizia, le vocazioni e le delusioni, i desideri e i fallimenti sentimentali, la nostalgia per quello che è stato ma che non tornerà… Qualche lettore avanza timidamente una possibilità di finale aperto a una speranza: forse la consapevolezza acquisita dai protagonisti durante la lunga notte di confessioni reciproche potrebbe offrire la spinta a ricostruire qualcosa, ma prevale nel gruppo una interpretazione pessimistica: non c’è consolazione, nessun antidoto e nessuna soluzione.
Leggi la pagina 21 di questo libro.
“Patria” è un romanzo contemporaneo che ha incontrato un grande successo di pubblico in Spagna e nel mondo, il favore della critica e un’accoglienza entusiastica da parte dei lettori di Pagina 21.
“Patria” si legge quasi correndo, conquistati e commossi, trascinati dentro una storia vivida di persone alle prese con le speranze, i rovesci, la normalità quotidiana, le impennate del destino e di una drammatica tensione civile e sociale. I protagonisti di questa storia sono i membri di due famiglie: padri, madri, figli dentro la vita locale, minuta, di un piccolo paese basco. Ma intorno respira uno sfondo, reale e drammatico, complesso e talvolta fatale.
Siamo in terra basca, dalle parti di San Sebastian, anni Ottanta e seguenti. La lotta indipendentista del separatismo si incarna anche nella violenza del terrorismo dell’ETA. In questi rivolgimenti di ideali e di lotta, di fierezza etnica e di ribellismo rivoluzionario, vengono trascinati i destini di quelle due famiglie, strettamente legate fra loro, amiche da sempre, intrecciate in saldi rapporti affettivi. Ideologia e assolutismo, la lotta oltranzista e il terrorismo si insinuano in quella pacifica quotidianità, avvelenando l’aria morale del paese fino a lacerare una intera comunità: saltano rapporti di lealtà, amicizie.
L’aspetto storico e politico è centrale ma Aramburu non perde mai di vista i suoi personaggi con i loro piccoli e grandi drammi: si leggono vicende private, personali, tenerissime o drammatiche di vite domestiche, madri che preparano le cene e trepidano per i figli, rapporti coniugali annosi, affaticati ma profondi, innamoramenti giovanili disordinati, fallimenti sentimentali. L’imprevisto irrompere di un dramma civile sconvolge ma non sommerge quel flusso di esistenze tra loro intrecciate.
Un romanzo in cui ci si immerge completamente, non senza una certa difficoltà iniziale: tanti personaggi, nove voci narranti e punti di vista, salti temporali, nomi e parole in lingua basca. I brevi capitoli dai titoli incisivi e anticipatori incuriosiscono e incoraggiano la lettura. E man mano che ci si comincia ad orientare, tutto si chiarisce e si rimane presto catturati, come imbrigliati nella tela costruita da Aramburu. Anche le parole in lingua Euskera, con la loro secca spigolosità musicale, contribuiscono al fascino del romanzo e alla sensazione di essere catapultati a vivere in Euskadi.
Tutti i personaggi sono delineati con dettagli vividi e arriviamo a conoscerli in tutta la loro complessità scoprendone le fragilità e i dolori profondi. In particolare spiccano le donne. Donne che apparentemente sono ai margini perché sono gli uomini a compiere le azioni più evidenti; ma le donne in realtà determinano le vicende e le relazioni umane e rappresentano gli elementi forti della famiglia. Intensi e indimenticabili i personaggi di Miren e Bittori, due donne ferite, così dure ma al tempo stesso così legate e fedeli alla famiglia, a cui è rivolto ogni loro pensiero e fatica, tanto che Miren andrà per tutta la vita in carcere a fare visita al figlio, Bittori al cimitero sulla tomba del marito.
Molto complesso il rapporto tra Miren e Bittori e le figlie, un rapporto aspro e difficile tra tradizione e modernità. Proprio tra le figlie, il personaggio più affascinante è Arantxa, che conosciamo negli anni giovanili, liberi e trasgressivi e poi negli anni della maturità, in cui nonostante le tragedie che la colpiscono, non si spezzerà, per nulla disposta a barattare la sua umanità con l’odio. Arantxa sarà anzi fautrice della riconciliazione, riuscendo a spezzare il meccanismo di odio e risentimento innescato dalle due famiglie e portando avanti il messaggio di luce e speranza che le persone possano cambiare, seppure con fatica.
La lettura di questo poderoso romanzo è stata impegnativa non solo per la natura frammentaria della narrazione ma anche per i temi. Si parla di relazioni famigliari, di identità e radici, di crescita, di perdita, di solitudini, di dolore e perdono; manca la narrazione dell’amore inteso nell’accezione sentimentale. Le relazioni sono forti ma dure, e la tenerezza e la fantasia sembrano quasi non poter trovare spazio in quel contesto grigio e angosciante.
La scrittura di Aramburu è molto interessante e originale: cambia il punto di vista e il narratore, cambia la punteggiatura e questo ritmo scomposto, nervoso dà tridimensionalità alla narrazione e ci trasmette il clima e le sensazioni di ansia, insicurezza, confusione, rabbia che provano i nostri personaggi. Lo stile è diretto, incalzante, con continue mescolanze colloquiali fra terza persona e prima persona armoniosamente intrecciate, una prosa quasi sensitiva, molto parlata, trepida, emotiva.
Il tema politico ha fatto la fortuna di questo romanzo, in Spagna è stato letto come un’opera catartica che ha ripercorso la storia di questa terra e di questo popolo dal post-franchismo fino al 2011, quando l’ETA ha annunciato la cessazione definitiva della sua attività armata. Non più cronaca, e non ancora storia.
Alcuni lettori si sono soffermati su questo aspetto, analizzando la posizione dell’autore, che pur cercando di rappresentare più voci e posizioni tra luci e ombre, esprime un giudizio estremamente negativo sull’ETA. Pur condividendo la posizione, sono state rilevate alcuni aspetti della vicenda non attendibili, non verosimili: ad esempio che la popolazione fosse così nettamente a favore degli indipendentisti, che le operazioni terroristiche potessero essere condotte anche negli stessi territori dei terroristi incaricati. Ma queste incongruenze sono giustificate dalla letterarietà dell’opera che non vuol essere un reportage o un saggio storico ma una rilettura di fatti reali da parte dell’autore. È diritto dell’autore reinventare, unire finzione e realtà. L’autore dichiara le sue intenzioni nel paragrafo del romanzo “Se il vento soffia sulla brace” in cui uno scrittore spiega il progetto di elaborare, attraverso la finzione letteraria, una testimonianza delle atrocità commesse dalla banda terrorista non per prendere in maniera esplicita una posizione politica ma per raccontare le vite delle vittime e di una società sottoposta al terrore.
“Patria” è quindi un’opera che racconta un periodo storico molto preciso, ma in qualche modo attraversa e trascende l’ambientazione e arriva a parlare a tutti come storia umana universale.
Leggi la pagina 21 di questo libro.