Il senso di una fine di Julian Barnes

Una recensione di questo libro recita “è il libro più fastidioso che io abbia mai letto, e l’ho divorato”: una sintesi un po’ estrema ma significativa dei molti interventi nel nostro gruppo. In effetti il libro è piaciuto a tanti, non è piaciuto a una parte, ma a tutti indifferentemente ha lasciato una sorta di insoddisfazione per le mancate risposte che ci si attendeva a fine lettura, e che in realtà Barnes ha volutamente taciuto per lasciare, come sostiene un lettore, totale libertà di interpretazione. È per queste ragioni che il libro ha acceso una discussione molto vivace intorno al tema centrale, al messaggio, alla qualità narrativa, alla verosimiglianza dei personaggi. Opera sicuramente riuscita come “operazione culturale”, dal momento che ha coinvolto, fatto riflettere e appassionato il gruppo nel confronto di idee.

La storia si apre in una Londra vintage, in una scuola maschile negli anni ‘60 che ci immaginiamo popolata di cravatte e cartelle di cuoio. Il narratore, Tony, ci racconta dell’adolescenza sua e di tre compagni di scuola: Alex, Colin, e Adrien. Tutti (tranne Adrien) abbastanza ordinari; impermeabili alla liberazione sessuale che preme per esplodere nel mondo esterno alla scuola, loro disquisiscono di storia e filosofia, portano l’orologio sull’interno del polso per distinguersi, e ripetono ossessivamente la frase “questo è filosoficamente tautologico”, godendo ogni volta come solo gli inglesi sanno fare quando utilizzano parole derivanti dal greco. Il narratore si cala corpo e anima nei suoi ricordi e tornando ad abitare i panni del Tony quindicenne, lo sentiamo totalmente a suo agio, in attesa del futuro. Il problema è che poi quel futuro ti travolge, che tu lo voglia o no, e l’agio del narratore scompare, dimostrando la sua incapacità di confrontarsi con la complessità. In tutto il romanzo gli avvenimenti sono pochissimi, e i ricordi di Tony (come il lettore a breve scoprirà) sono inconcludenti e non di rado totalmente falsi. Si percepisce nettamente la feroce ironia di Barnes, che in questa vicenda tocca temi autobiografici delicatissimi e che veste i panni di un narratore del tutto inaffidabile, tanto che, a distanza di anni, dimentica e modifica i suoi stessi ricordi, e dimostra di non aver imparato niente (come gli ripete la prima fidanzata Veronica), in quanto continua a filtrare i pensieri degli altri personaggi attraverso le proprie percezioni e convincimenti.

Tale atteggiamento rende Tony molto antipatico, sia perché incarna i difetti e la mediocrità dell’uomo comune… e dunque ci mette di fronte a noi stessi, sia perché lascia sospesa la vicenda fino al termine, quando il tanto atteso disvelamento sui punti chiave arriva, ma molto parzialmente, e tanti dubbi cruciali restano irrisolti. Tutto rimane appeso, incerto, incompiuto, che è un po’ come Tony ha vissuto la sua vita da adulto, dopo l’esperienza universitaria che coincide con l’inizio delle cose che lui non comprende.

Un finale ci viene dato, ma è interpretabile in tanti modi diversi… e questo può essere considerato una “genialata” oppure una amara delusione.

A parere di diverse lettrici questo romanzo è in realtà un saggio mascherato, dove la narrazione è solo un pretesto per sostenere e argomentare concetti e tesi filosofiche, in uno stile raffinato ma a tratti troppo artefatto, cervellotico e persino snob.

Il senso di una fine tocca varie tematiche filosofiche (la responsabilità, il suicidio, il senso della vita…) e mette in campo il pensiero di autori prediletti come Camus, ma anzitutto ci invita a meditare sugli inganni del tempo e della memoria: siamo sicuri che certe cose siano realmente accadute, o forse le ricordiamo a modo nostro?
“Con quale frequenza raccontiamo la storia della nostra vita? Aggiustandola, migliorandola, applicandovi tagli strategici?” scrive Barnes. Da giovani ci inventiamo diversi futuri, da vecchi risistemiamo il passato nostro e quello degli altri.

La vita allora è la storia che ne abbiamo raccontato e infatti Tony, il protagonista e narratore, scrive una lettera spregevole ma poi ce la nasconde. Non dice niente della lettera, né a se stesso né a noi. La dimentica e la scopriamo solo quando Veronica gliela rimanda e lui ne è scioccato. Si può rimuovere qualcosa fino a questo punto?

Sono questi i comportamenti che non possono farci assolvere l’uomo senza qualità che è Tony, anche se a volte gli assomigliamo tremendamente e qualche lettrice si dichiara indulgente nei suoi confronti.

Un libro non facile, profondo, disincantato, amarissimo, per certi versi illuminante, ma a tratti frustrante per il lettore.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Benevolenza cosmica di Fabio Bacà

“Benevolenza cosmica” è il primo romanzo dello scrittore Fabio Bacà, ora in lizza per il premio Strega 2022 con il suo secondo romanzo, Nova.

L’esordio di un autore italiano quasi cinquantenne, originario di un paese di provincia, istruttore di ginnastica, che si affaccia da outsider nel panorama letterario uscendo direttamente con un editore ricercato e selettivo come Adelphi ha destato molta curiosità e aspettative.

E il romanzo in effetti si distacca molto dalla produzione italiana contemporanea, per tematiche e per stile. Siamo davanti a un’opera che non si prende troppo sul serio, che viaggia sul filo dell’ironia, dello humour e del grottesco, che gioca e sperimenta con il linguaggio, che mette in scena “quadri”, scene gustose e dialoghi scoppiettanti concentrando tutta l’azione in poco più di 24 ore.

Il libro segue le vicende di Kurt O’Reilly, statistico con la tendenza a dare una spiegazione razionale a tutto, ma che viene messo in difficoltà dall’incredibile fortuna che lo perseguita, alla quale non trova spiegazione e che vede solo come una condanna: “Era come se non riuscissi a capacitarmi del fatto che l’esistenza potesse scorrere su cuscinetti così perfettamente lubrificati, in una perenne accelerazione che sembrava voler sovvertire le leggi del moto. […] Il punto era che le disgrazie capitavano regolarmente a qualcun altro.”.

Inizia così un viaggio alla ricerca di una spiegazione, in una Londra futuristica popolata da personaggi sempre più eccentrici e strambi.

Lo spunto è paradossale: chi non vorrebbe una serie di colpi di fortuna senza fine? Tutti ci lamentiamo di sfortune e mala sorte, Kurt invece rimane atterrito da questa fortuna sfacciata perché lo priva completamente di quella sensazione di insicurezza e incertezza che rende la vita interessante; è la paura che qualcosa vada storto e il dolore che ci avvicinano alla felicità e alla possibilità di apprezzare la vita fino in fondo. “Non voglio vivere una vita in cui mi sia proibito di accedere alle sensazioni limbiche di timore, angoscia, senso d’ignoto, vuoto, viltà, invidia, disprezzo, rancore e attrazione per il lato sbagliato delle cose: sensazioni a cui dovrebbe accedere ogni essere umano, se vuole ancora considerarsi tale. E io non voglio essere qualcosa di diverso da un uomo. Non voglio svegliarmi ogni mattina con un sorriso idiota in faccia al pensiero di tutte le cose belle che accadranno, avendo la certezza che accadano. Non voglio la certezza, intendo: la speranza è già sufficiente“.

Questo surreale rovesciamento di prospettiva ha affascinato alcuni lettori, conquistati dall’inventiva e dall’originalità dell’autore e al contempo dal messaggio anche profondo e non banale che sta sotto. Altri lettori invece si sono presto stancati dello stile che a volte pare inutilmente ricercato, forzato,  compiaciuto, fine a se stesso e dal susseguirsi di azioni e personaggi slegati in una trama che risulta poco coinvolgente. L’autore si ispira dichiaratamente alla letteratura americana contemporanea e sono molti i rimandi a romanzi di DeLillo e Vonnegut e Foster Wallace, ma in alcuni casi l’omaggio rasenta il plagio. E si ridimensiona quindi l’originalità dell’impresa.

Rimangono per tutti i lettori alcune belle pagine e descrizioni divertenti, come la scena del tatuatore all’opera sulla pornostar o la surreale visita allo psichiatra nella spettacolare piscina all’ultimo piano di un grattacielo.

Sul finale, che porta un messaggio di amore e umanità, non sono mancate le perplessità perché per alcuni è apparso banale, troppo costruito, e poco in linea con il tono dissacrante della storia. Ma forse il nostro Kurt, dopo un viaggio solitario e disperato, ritrova se stesso e un senso alla sua esistenza proprio affrontando il dolore e rimettendo al centro le persone care e gli affetti.

Leggi la pagina 21 di questo libro.