Il treno dei bambini di Viola Ardone

Ci sono libri sui quali la discussione stenta a decollare e occorre che qualcuno rompa il ghiaccio perché poi altri intervengano… ebbene, non è questo il caso! Fin da subito è stato un fiorire di commenti e un voler dire la propria con entusiasmo, anche parlando contemporaneamente. Insomma il libro è piaciuto, è una bella storia giustamente riportata alla luce dopo tanti anni di dimenticanza, ben costruita dal punto di vista della narrazione, senza tralasciare alcun dettaglio, per alcuni fin troppo ricercata.

Tutta la prima parte ha ridestato nei lettori il ricordo di un bel libro letto insieme tempo fa: La vita davanti a sé di Gary: Amerigo, come Momo, racconta dal suo punto di vista e con il suo linguaggio colorito e dialettale; inoltre i numerosi espedienti simbolici che compaiono (la mela annurca, i cappottini gettati dal treno, e soprattutto le scarpe) rimandano al commovente Montedidio di Erri De Luca, pure ambientato a Napoli e con un ciabattino protagonista.

Ma la bravura della scrittrice nel catturare il lettore è indiscutibile: questo libro è di quelli che non si riesce a lasciare a lungo sul comodino.

È il 1946: la guerra è finita ma la città di Napoli fatica ancora a rialzarsi dopo lo strazio e i bombardamenti. C’è fame, c’è povertà ma c’è anche amore e compassione. Amerigo è il figlio di mamma Antonietta, una donna ignorante, burbera e di poche parole (“il silenzio è arte sua”); una donna sola che accudisce un bambino privato dell’affetto di un padre che è andato – forse – a cercar fortuna in America. Ma mamma Antonietta è anche una donna che soffre in silenzio: aiuta Capa ‘e fierro a nascondere cose inimmaginabili sotto il suo letto per garantirsi un po’ di soldi per campare, e volge spesso il suo pensiero a Luigi, il fratello più grande di Amerigo morto per una brutta asma bronchiale.

“Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo suo, due miei. Guardo le scarpe della gente. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai, porto quelle degli altri e mi fanno sempre male.

Mamma Antonietta conosce Maddalena Criscuolo, una compagna del partito comunista (personaggio realmente esistito) che la convince a mettere Amerigo su un treno che lo porterà nell’Alta Italia dove troverà una famiglia pronto ad accoglierlo, non per carità ma per solidarietà! Dapprima restia a causa delle voci discordanti della Zandragliona e della Pachiochia che erano convinte che i bambini venissero spediti in Russia per essere poi deportati e sottoposti ai lavori forzati, Antonietta alla fine acconsente e si lascia convincere.

Amerigo si ritrova a Modena a casa di Derna e della sua famiglia: conosce la cugina Rosa, un’ottima cuoca che lo delizia con le sue prelibatezze, Don Alcide che gli trasmette la passione per la musica e il violino, i loro figli, Rivo, Luzio e Nario.

Dopo aver passato mesi intensi e pieni di emozioni, Amerigo torna a casa da mamma Antonietta: la donna, dopo aver notato che il figlio è sceso dal treno dei bambini più alto e più paffuto (“la malerba cresce”), lo riporta a casa e lo informa che presto dovrà imparare un mestiere perché i soldi sono pochi e non sono sufficienti per campare. Tutta la spensieratezza svanisce d’un tratto: la vita di Amerigo si è ristretta di nuovo, il suo violino che Don Alcide gli aveva regalato per il suo compleanno, è finito oramai sotto il letto e non c’è modo di riprendere a suonare.

Sarà proprio il violino la causa di un brusco allontanamento tra mamma e figlio: Amerigo lascia Napoli per ritornare definitivamente nell’Alta Italia.

L’ultima parte del romanzo altro non è che una vera e propria lettera d’addio, un gioco del non detto e di una verità che viene fuori troppo tardi anche se non in maniera del tutto esplicita. È il 1994: Amerigo è oramai un uomo sulla cinquantina e un affermato violinista. Una telefonata inaspettata lo fa ritornare nella sua città natale dove Antonietta è morta.

Amerigo ha lasciato in un angolo oscuro del suo cuore la mamma e la città di Napoli: ha fatto prevalere l’egoismo, la testardaggine e la forza di volontà pur di seguire i suoi sogni e pur di scappare dalla povertà. In questa parte muta il suo registro linguistico senza però dire più del dovuto: tutto ciò che c’era di non detto tra lui e mamma Antonietta resta così, avvolto ancora dal silenzio, da dubbi che oramai resteranno tali.

“Da qua sono scappato e qua ritorno, ma questa volta sei tu che te ne sei andata senza salutare.” Rosa glielo aveva detto: puoi tenerci tutti insieme nel cuore, come i fagioli nel baccello. Ma non era stato capace.

E ora torna come uno straniero nella sua città, con le scarpe nuove che gli fanno male, ed è doloroso riaccostare i lembi dello strappo.

Amerigo ritrova luoghi e odori, la pasta sul fornello e la mela annurca, capisce ciò che è mancato nella sua vita guardando le foto di famiglia sulla scrivania di Tommasino.

Poi un vecchio calzolaio gli prende le scarpe e le adatta per farlo camminare senza dolore. Ed è così che si ricuciono le cose interrotte, dopo più di cinquanta anni… e forse questa conclusione con un recupero del legame con la sua famiglia e un quasi lieto fine non convince del tutto: in poche ore non si riparano ferite tanto profonde.

Il romanzo è ricco di temi ancora molto attuali, a partire dal confronto Nord/Sud per arrivare al dramma dei migranti dei giorni nostri, ma riesce anche a interpretare con profondità il legame madre/figlio che forse più di tutti ha interessato il gruppo di lettori, pur senza portarli a schierarsi da una parte o dall’altra, perché Amerigo e Antonietta sono entrambi colpevoli e innocenti allo stesso modo, figure tragiche segnate dalla povertà economica e culturale.

Certo è che ogni volta che mangeremo una mela annurca (come quella che ci ha gentilmente donato la nostra amica napoletana) ricorderemo questo libro.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Amatissima di Toni Morrison

Un libro difficile da digerire dal quale tuttavia non ci si può sottrarre perché sappiamo essere la testimonianza di una storia realmente vissuta in cui l’orrore e la bellezza vanno sottobraccio come la morte e la vita, come l’odio e l’amore. Toni Morrison dedica questo suo romanzo ai “sessanta milioni e più” di africani che morirono nei lunghi anni del Middle Passage in qui si praticò il commercio atlantico degli schiavi. L’autrice sceglie di raccontare questa storia per dare voce a tutti coloro che sono stati dimenticati e non hanno trovato spazio nella memoria collettiva. Un romanzo che non è possibile leggere senza poi finire per trovarsi sporchi, macchiati di un peccato originale indelebile, da una macchia nera sulle nostre pelli bianche.Il romanzo narra di un percorso personale, quello di Margaret Garner, nella finzione letteraria Sethe; schiava fuggitiva dal Kentucky, colpevole di aver ucciso la figlia Amata (Beloved) per evitarle gli orrori della schiavitù, che adesso vive da donna “libera” al 124 di Bluestone Road insieme alla figlia più piccola Denver, nata sulla soglia della nuova vita. Il ricordo dell’infanticidio, tanto disumano da non riuscire a parlarne, riecheggia in ogni momento della storia, come un incubo. Perchè «liberarsi è una cosa, rivendicare la proprietà di quell’io liberato un’altra» e Sethe è libera solo di nome, di fatto è ancora schiava: porta sul suo corpo e nella sua mente i segni di un passato terribile trascorso alla Dolce Casa, un passato in cui ha subito violenze e soprusi. Metafora di ciò è l’albero cresciuto sulla schiena di Sethe, ossia l’intrico di cicatrici sulla schiena lacerata e martoriata dalle frustate.La narrazione si concentra sul rapporto madre-figlia. Sethe con l’infanticidio rivendica sia il possesso di sua figlia sia una scelta radicale di libertà, sente Amata come una parte di sé e arriva all’estremo di voler uccidere quella parte migliore di sé purché non diventi proprietà degli schiavisti. All’epoca, lo stupro delle donne africane da parte dei padroni bianchi era riconducibile alla necessità di riproduzione dei figli come schiavi e merce di scambio. Questo fino a quando Amata non diventa l’incarnazione del rimorso che ritorna per fagocitare Sethe, rischiando che la sua libertà diventi una forma inconsapevole di schiavitù: «Più Amata diventava grande e più Sethe diventava piccola, più gli occhi di Amata diventavano luminosi e più quegli occhi che non si abbassavano mai diventavano due fessure assonnate. Stava seduta su una sedia come una bambina in castigo, mentre Amata le divorava la vita, la afferrava, se ne gonfiava, la usava per diventare più alta».In questo romanzo niente è chiaro, niente è completamente messo a fuoco, niente è immediato e lampante. Il racconto non è lineare, svolgendosi su piani temporali diversi, e scardina i nostri processi razionali lasciandoci disorientati, sbandati. Non è stato di certo facile quindi per i lettori seguire la trama e collocare gli svariati flashback storici e i tanti personaggi all’interno della vicenda. Alcuni lettori hanno ritenuto il libro troppo complesso, criptico, dal linguaggio stratificato, e la fatica nell’orientarsi tra le varie digressioni, la staticità della vicenda centrale e i dialoghi forzati, ha prevalso sul piacere della lettura.Per molti è stato complesso trovare le parole per un libro che profuma di capolavoro e di classico intramontabile, c’è chi ha avuto difficoltà nella ricostruzione dei fatti, chi è rimasto angosciato per giorni per cercare di metabolizzare gli orrori descritti e infine chi, dopo aver sospeso più volte la lettura ha deciso di abbandonare il romanzo. Hanno colpito tanti dettagli, in particolare la spersonalizzazione degli schiavi, a cui era negato persino il diritto di creare tra loro legami, ma non l’imposizione di accoppiarsi al solo fine di riprodursi.Di certo non è mancato il sostegno dei lettori che sono rimasti rapiti da questa storia di dolore e amore allo stato puro, in cui vivi e morti danzano insieme legati da un filo invisibile, e dallo stile potente, poetico, originalissimo dell’autrice. Hanno quindi vissuto insieme agli straordinari personaggi femminili il racconto delle loro vite, abbandonandosi alla “magia” che pervade il romanzo. Al centro il rapporto tra Sethe e Amatissima: cosa può l’amore di una mamma che non ha conosciuto l’amore di una mamma, ma ama di un amore così puro i propri figli da decidere ogni cosa per sé, per loro, anche la più terribile? Cosa può l’amore di una mamma che ama di un amore troppo grande? «Troppo grande? (…) L’amore o c’è o non c’è. L’amore piccolo non è amore per niente.»Come può la vita incontrare la morte, in un abbraccio senza fine? Come si può continuare a vivere senza prima fare i conti con il passato e perdonare prima se stessi? Come si può vivere come fantasmi nel mondo dei vivi o vivi in un mondo di fantasmi?E poi, nonna Baby Suggs, voce profetica della comunità che in punto di morte decide di mettersi a letto e pensare solo ai colori che la circondano per cercare di uscire dall’oscurità in cui è sempre vissuta e infine Denver, combattuta tra la paura del mondo esterno, il rapporto malato con la mamma Sethe e la misteriosa Amata e il desiderio di una nuova vita.Sicuramente Amatissima è un romanzo che arricchisce la mente e l’animo del lettore, una vicenda in cui l’autrice vuole ribadire il valore della memoria, l’importanza della comunità e della solidarietà femminile. E che, indubbiamente, induce il lettore a riflettere sul male privo di limiti che l’uomo può infliggere, facendo pronunciare parole dure all’autrice: «Al mondo la sfortuna non esiste, esiste solo l’uomo bianco».Sicuramente non è una storia da tramandare, ma allo stesso tempo non è da ignorare. Toni Morrison non ce lo permette, non vuole permettercelo, e lo fa scrivendo un romanzo che evoca un’epoca in cui la crudeltà e la disumanità hanno fatto scempio dei diritti umani, ma in cui, incredibilmente, è possibile ravvedere a fianco della malvagità e degli orrori umani parole colme di speranza, di poesia e nel quale insieme a vita e morte si intrecciano indissolubilmente schiavitù e maternità, bene e male, bianco e nero, passato e presente.Così la Morrison, attraverso quest’espressione ambivalente “It is not a story to pass on” conclude il suo romanzo.

Leggi la pagina 21 di questo libro.