La promessa di Friedrich Dürrenmatt

Il resoconto della discussione del Gruppo del pomeriggio non può naturalmente prescindere da quello del Gruppo della sera del mese scorso che propone tantissime osservazioni e dettagliate argomentazioni, alle quali non resta molto altro da aggiungere; tuttavia questo piccolo grande libro merita di ricevere ulteriori apprezzamenti.

Infatti, tranne pochissime eccezioni, l’intero gruppo di lettrici ha giudicato molto positivamente il libro, e forse si è ritrovato meno “sconvolto” del Gruppo delle 20.30 e più compatto nel tessere le lodi di questo intreccio perfetto nella sua semplicità e nello stesso tempo innovatore di un genere, il giallo, che per Durrenmatt era consumato e non più corrispondente ai bisogni del suo tempo.

Una sola lettrice ha esternato la sua delusione nel ritrovarsi davanti a un non-giallo, delusione che non le ha permesso di lasciarsi irretire dall’abilità e dallo stile preciso, lineare, nitido dell’autore.  Tutti gli altri hanno quasi fatto a gara nel proporre passaggi che li avevano coinvolti o interpretazioni degli innumerevoli messaggi che, pur in così poche pagine, il libro ci trasmette.

Per fare qualche esempio, il personaggio della bimba con le trecce bionde, il vestitino rosso, il cestino, evoca palesemente per una lettrice la favola di Cappuccetto Rosso, come per dirci che qui non si tratta di una fantasia, e il fine dell’autore è a dir poco dissacrante non solo nei confronti della favola stessa, ma anche del rapporto genitori-figli. Un’altra lettrice è rimasta colpita dal personaggio dello psichiatra Dottor Locker che delinea teoricamente il ritratto calzante dell’assassino, solo basandosi sulle informazioni avute da Matthai: rileggere quel ritratto alla fine del libro ci dà la conferma che la razionalità e la logica possono benissimo arrivare alla soluzione del giallo, ma saranno sempre messe in discussione dalla fatalità, dall’imprevedibile che governa la vita degli uomini.

Un’altra osservazione giunta da molte lettrici riguarda l’insieme dei personaggi del libro, tutti negativi: non c’è un vincitore né un perdente in questa storia, nessun eroe buono che giunge alla punizione del malvagio; la quintessenza del cinismo e dell’opportunismo è tutta concentrata nella vecchietta che alla fine disvela il vero assassino, protetto per anni per motivi sciocchi ed egoistici; e anche Matthai, che si presenta come il poliziotto ideale, incarnazione dell’efficienza svizzera, scade e precipita lentamente nell’abbrutimento e nella follia: come dire che non c’è speranza per l’uomo, inutile cercare un riscatto, assurdo cercare giustizia, e questa è la visione cupa, pessimistica, definitiva di Durrenmatt. Terrificante poi la comunità del villaggio che incanala lo sgomento per il terribile omicidio in una rabbia cieca e irrazionale verso l’ambulante, presunto colpevole, che rischia il linciaggio.

Modificando le leggi su cui si basa il giallo classico, lo scrittore svizzero ne modifica anche la struttura, soprattutto il finale: non ci sarà più una vera e propria conclusione con l’arresto o la morte del colpevole. Niente più lieto fine per i lettori.

Una parte interessante della discussione si è poi indirizzata a confrontare questo libro con altre letture del gruppo: per esempio XY di Veronesi, dove accadono fatti assurdi, al di là di ogni logica e credibilità; Una questione privata di Fenoglio, invece, narra dell’ossessione di Milton per Fulvia che per certi versi ci fa pensare all’ossessione di Matthai per la promessa fatta; certi romanzi di Sciascia si possono definire, analogamente a questo, “gialli problematici”, rivolti a temi sociali o politici di attualità.

Infine varie lettrici hanno dichiarato l’intenzione di leggere altri libri di Durrenmatt, a partire dal suo più noto “Il giudice e il suo boia”.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

La strada di casa di Kent Haruf

Come tutti i romanzi di Haruf, anche “La strada di casa” ci riporta uno spaccato della vita quotidiana americana. Proprio lo scenario della cittadina immaginaria di Holt, così semplice, desolante e apparentemente banale, ha contribuito fin da subito ad accendere pareri contrastanti tra i lettori.

Questa cittadina, forse poco letteraria ma simile alla realtà di tante provincie del Colorado, con i campi desolati sullo sfondo, la vastità della pianura e il villaggio punteggiato da Motel, rappresenta uno spaccato dell’America rurale, descritta da tanti autori e cineasti: e così anche Haruf inizia il suo racconto dalla Main Street per portare il lettore a conoscere piccole storie della comunità. Una comunità che per diversi aspetti incarna l’essere americano con le sue piccole ipocrisie, la voglia di farsi giustizia da sé, il valore della famiglia, e quella continua ricerca di equilibro tra ciò che è moralmente giusto e la spinta al predominio. Una comunità che sa farsi coesa e partecipe del dramma dei protagonisti, ma che contemporaneamente giudica in maniera impietosa, esclude e non accetta ciò che non comprende, mostrando gli aspetti barbari di una società quasi primitiva.

La magia dello stile di Haruf sta nel descrivere le azioni e i sentimenti con una scarnificata semplicità: rapporti famigliari complicati, tragedie, violenza e la brutalità di certe scene irrompono sulla pagina con un’apparente naturalezza.

Nessun virtuosismo, solo un autore e la potenza spesso taciuta o snobbata delle vite di tutti i giorni. E la poesia che emanano queste esistenze minuscole, solitarie, silenziose ma anche potenti e tenaci. I protagonisti sembrano venir fuori dalle pagine, senza che l’autore abbia avuto il bisogno di caricarli eccessivamente. Vediamo i cittadini di Holt attraverso le frasi che dicono, quasi sempre brevi, e anche mediante i silenzi e gli sguardi.

Questa scrittura che non indugia, non approfondisce, per alcuni lettori è fin troppo minimalista, e il risultato è un racconto scialbo e anonimo, non in grado di catturare ed emozionare. Haruf lascia al lettore e alla sua immaginazione intuire le sensazioni e i sentimenti dei personaggi che reagiscono alla sorte con un misto di coraggio e fatalismo, concentrati solo sul tempo presente, in un’America rurale in cui il tempo sembra non scorrere, come il ritmo della narrazione, dilatato dallo scrittore quanto più possibile.

“Where you once belonged”, dove tu una volta sei appartenuto. Puoi essere un giornalista con una vita comunissima, con una moglie eternamente chiusa in sé stessa, una figlia che non ha nemmeno il tempo di assaggiare la vita; puoi essere un contabile avido fregato da false promesse e strangolato da una comunità soffocante, puoi essere una donna umiliata ma impavida; ma tutti loro appartengono a una sola cosa, il loro destino. E il loro destino si chiama Jack Burdette. Kent Haruf ce lo presenta nella prima parte del romanzo a bordo della sua sfavillante Cadillac rossa, sprezzante e provocatorio, e la sua presenza minacciosa aleggia su Holt come il destino che prepara il suo piano. Jack è il tipico bullo pieno di sé, un ragazzo disinvolto, affascinante, uno dei tanti teppistelli di provincia diventato famoso fra i compaesani per la sua forza e fisicità strabordante nel football e nelle bevute colossali. Jack rappresenta un esempio di individualismo cieco che tradisce l’eredità dello spirito frontieristico di cui Holt è un’incarnazione: nonostante la cittadina ostenti la sua ipocrita rettitudine, le apparenze della quotidianità nascondono a malapena esplosioni di violenza sempre in agguato, fomentante dalla continua presenza e poi assenza di questo triste e malinconico personaggio.

Intorno a Jack ruotano le vite di tutti, in particolare quella di Jessie Burdette, la donna che neanche due giorni dopo l’incontro in Oklahoma con Jack, ne diventa la moglie e si trasferisce con lui a Holt, accendendo nei suoi concittadini prima le curiosità e successivamente una certa ostilità per la sua riservatezza. Jessie, donna dolce e minuta ma tenace, colpevole solo di aver desiderato una vita normale, dovrà compiere un sacrificio enorme per ammansire la bestia/comunità che vuole un risarcimento per gli inganni e le malefatte di Jack.

Patisce con dignità il disprezzo della comunità, subisce le offese malcelate, ma resiste costantemente. Perché in fondo sarebbe così facile per lei fuggire, recidere ogni legame con Jack e quella comunità che non ha voluto accoglierla, ma contrariamente, decide di sfidare a uno a uno il disprezzo dei suoi abitanti, diventa un’eroina tragica e consuma il suo dramma in uno dei momenti più intensi della narrazione. Jessie si rivela così in tutta la sua bellezza, per dignità e capacità di resistenza ed è stato il personaggio più apprezzato dal gruppo: è forse l’unica che riesce a vincere lo scacco del destino, umiliandosi e pagando il prezzo più alto in assoluto, uscendone probabilmente con l’anima distrutta ma ancora in piedi e a testa alta.

Gli altri abitanti di Holt che incontriamo sono personaggi dolenti, che si lasciano travolgere dagli eventi e ne usciranno a pezzi: l’ingenua Wanda Jo, il contabile che tentando il suicidio resta gravemente menomato, Pat che con la tragica morte della figlia vede la propria vita sbriciolarsi violentemente, sua moglie che si rifugia nel rapporto quasi morboso che ha con il padre.

Ma Pat, che è la voce narrante che ripercorre a ritroso come un cronista la storia di Jack e dell’intera comunità, è il miracolato a cui capita una seconda occasione: Jessie e il suo calore e la sua voglia di essere felice. E quando tutto sembra finito, quando il peggio sembra passato, quando torna la speranza, quando torna brevemente la felicità (raramente è stata resa così bene questa sensazione di frustrazione), ecco che torna, il posto dove tutti apparteniamo, o siamo appartenuti, che torna a reclamarci di diritto. Dopo un leggero e tiepido raggio di sole torna il freddo dell’esistenza comune, dell’andare avanti per inerzia. Non puoi sognare tra i confini di un destino chiamato Holt.

Questo romanzo ha diviso i lettori: chi annoiato dal racconto di vite così squallide e dolenti, chi affascinato dal mondo creato da Haruf, un posto sperduto, nel quale non succede quasi niente, ma quel niente ci agguanta e ci tiene con sé, forse perché l’autore sembra dirci che ogni personaggio meriti comprensione e compassione e che anche l’animo più duro debba nascondere una qualche ragione.

C’è chi pur leggendo l’intero romanzo, ha trovato interessante solamente la nota a fine libro del traduttore Fabio Cremonesi, e chi non ha compreso l’affermazione riguardo la giustizia dei tribunali come tema nevralgico del romanzo. Una riflessione sulla giustizia odierna e tragica, dove la legge prescrive il reato e mette in libertà Jack, che può addirittura esibire con arroganza la sua colpevolezza e rivendicare diritti di cittadino, marito, padre.

Un’ultima considerazione su questo romanzo è la peculiarità del finale lasciato aperto, un modo per lasciare spazio all’immaginazione del lettore.

Leggi la pagina 21 di questo libro.