Stirpe, di Marcello Fois

Il libro ha riscosso unanimità di consensi, anzi, da parte di alcune lettrici, entusiastici apprezzamenti, insieme alla proposta di rileggere insieme e assaporare qualche pagina, come quella che descrive la lavorazione del metallo quale metafora dell’educazione di un figlio, di una stirpe.

È la storia di una famiglia che proviene dal nulla e che vuole lasciare un’impronta sulla terra: Michele Angelo Chironi e Mercede Lai sono due figli illegittimi, cui qualcuno, pietosamente, ha prestato il proprio cognome; il primo, prelevato da un orfanotrofio da un fabbro rimasto vedovo, l’altra messa ancora bambina a servizio di una famiglia. Un giorno del 1889, Michele Angelo e Mercede cominciano ad esistere uno per l’altra: si incontrano in chiesa e decidono con un solo sguardo che quel momento chiamato amore confluirà nel loro matrimonio e nella nascita dei figli. Michele Angelo è un fabbro forte e molto bravo nel suo mestiere: a cavallo tra il XIX e il XX secolo le balconate di ferro sono molto richieste in una Nùoro che non è più fatta solo di campagna e di pastori ma anche di modernità: il paese ha ambizioni grandi, vuol diventare città e così decide di ingrandirsi.

Marcello Fois divide il suo romanzo in tre cantiche come la Commedia: dopo un breve Paradiso la famiglia Chironi dovrà affrontare l’Inferno, che durerà oltre quarant’anni e cancellerà, un pezzo alla volta, la possibilità di dar vita ad una stirpe. Le vicissitudini narrate saranno molteplici e attraverseranno momenti topici come la Grande Guerra che si porterà via il figlio Luigi Ippolito, la seconda Guerra Mondiale che si porterà via Gavino e, fenomeno locale ma forse non troppo, il banditismo che colpirà il ramo femminile della famiglia. Anche Mercede si perderà, resteranno a portare avanti il fardello pesante dei tanti lutti solo il patriarca Michele Angelo e la dolce Marianna.

Sembra quasi un romanzo di verghiana memoria, dove fare il passo più lungo della gamba (acquistare una vigna, mandare un figlio a studiare, sposare una figlia ad un nobile vero) preannuncia tragedie su tragedie che sembrano non voler finire, e che fanno pensare alla tragedia greca, a certa mitologia in cui gli uomini sono perseguitati dagli Dei e da un Destino feroce e implacabile.

Ma è anche un racconto che possiede il grande respiro del romanzo storico, nel quale la storia familiare rimanda costantemente alla storia di una Sardegna arcaica e primitiva, e anche alla storia generale tra Otto e Novecento. E bisogna dire che in Stirpe sono più numerose le pagine in cui ci si commuove e si prova un vero e proprio dolore fisico, di quelle in cui si sorride spensierati, ma la bravura dello scrittore sta esattamente in questo: utilizzare tali forti sentimenti per restituire, anche a coloro che non l’hanno vissuto, quel preciso periodo storico in quella precisa realtà, e far capire che quello che racconta non è finzione. Per questo Stirpe è una sorta di monumento alla memoria nel senso più profondo del termine.

In questo interminabile Inferno ci sono pochi momenti dolci, i ricordi:

“(…) Ora a Mercede sembra di poter dire che la sua vita è stata una Via Crucis. (…) Eppure non si ha idea di quanti momenti felici si siano vissuti in quella casa (…). Sarebbe uno sgarbo a Dio dire che nella casa del maestro del ferro non è entrata mai la felicità. Come la volta che Luigi Ippolito e Gavino decisero di portarla al mare. Che cosa fu ancora non si può raccontare, che non ci sono parole (…)”

Anche dal punto di vista stilistico, Stirpe può essere senza dubbio catalogato come classico, soprattutto per l’abilità narrativa, la forza di penetrazione psicologica dei personaggi e la scrittura, che è pura maestria, di ottima fattura, a tratti con qualche indulgenza al poetico; una prosa meravigliosa, che fa amare la lingua italiana, antica, ricca di metafore, molto raffinata, con gli intermezzi del dialetto sardo ben usato e diluito. Una scrittura che non stanca mai.

Per questo il libro va oltre ogni tentativo di classificazione e diventa universale.

Certo, a libro chiuso, rimane forse un senso di “eccesso”, di personaggi che sono “troppo”, di sentimenti che sconfinano nel sovrumano, con un quanto di quasi magico. E si riflette sul tema (forse banale ma mai trattato banalmente) della vita che continua a dare e togliere, mettendo spaventosamente alla prova i protagonisti.  Fino alla catarsi finale, al cerchio che si chiude, alla forgiatura del ferro che riprende.

Non a caso al centro della storia domina il mestiere di fabbro, emblema di un uomo e di tutta la sua famiglia, sempre incastrata tra incudine e martello, sempre costretta a piegarsi, a soggiogarsi come metallo, una volta a indurirsi, l’altra a piegarsi, l’altra ancora a fondersi, per resistere strenuamente ai colpi della vita.

L’incontro finale apre tuttavia alla speranza: un destino che ha il volto familiare di Vincenzo Chironi dà inizio al Purgatorio, la terza parte del viaggio che condurrà a conoscere la verità sul senso dell’esistenza della famiglia  in questo mondo:

(…) Poi, poi tutto fu chiaro. (…) E la fine non è una fine.

Il racconto della stirpe dei Chironi prosegue in altri due romanzi di Marcello Fois: “Nel tempo di mezzo” e “Luce perfetta”.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Dona Flor e i suoi due mariti di Jorge Amado

Vitale, avvenente e scanzonata, Dona Flor vive i suoi giorni di sposa, vedova, e di nuovo sposa, nell’atmosfera magica e densa di Bahia. Dopo la morte improvvisa di Vadinho, eccezionale ballerino e amante inesausto, Flor riprende marito. È tutto un altro tipo don Teodoro, farmacista stimato, uomo rispettabile e affettuoso, decoroso e metodico. Finché un giorno, richiamato dal desiderio di Flor, il primo marito le appare in sogno. Sarà con le inesauribili risorse della magia che Dona Flor rimedierà alla “lontananza” di Vadinho, rendendolo vivo solo per lei, e per lei nuovamente amante e ballerino.

Nella colorata e a tratti ridondante narrazione corale di Jorge Amado, si intravede chiaramente la complessità dei rapporti umani. Siamo un po’ tutti come Dona Flor: per sentirci appagati e completi cerchiamo negli altri tanti sapori diversi e forse i due mariti di Flor rappresentano la necessità nella vita di ognuno di noi di trovare un equilibrio tra la nostra parte razionale e giudiziosa e la parte più istintiva.

“Lui il tuo volto mattutino, io sono la tua notte, l’amante di fronte al quale hai né possibilità di fuga, né forza, Siamo i tuoi due mariti, i tuoi due volti, il tuo sì e la tua negazione. Per essere felici hai bisogno di tutte e due. Quando eri sola con me avevi il mio amore ma ti mancava tutto, e quanto soffrivi! Poi avesti solo lui: avevi tutto, non ti mancava nulla, e soffrivi anche di più. Ora sì, sei dona Flor intera, come devi essere.”

Amado ci narra questa favola, che pur iniziando con una morte, è comunque un inno alla gioia di vivere. Nonostante il dolore di Dona Flor, le sue lacrime versate per quello screanzato di Vadinho, ogni pagina è intrisa di allegria e ilarità. C’è ironia, comicità in ogni aspetto della vita, anche i più drammatici. Questa leggerezza è stata molto apprezzata dai lettori, che hanno gustato la visione giocosa della vita che trasmette Amado come un invito a vivere il presente, le emozioni e i piaceri senza prendersi troppo sul serio.

Il mondo descritto è molto lontano dal nostro, è difficile comprendere fino in fondo le influenze delle radici africane nella cultura brasiliana, dello spiritismo. Ma anche senza comprendere appieno tutto, rimane il fascino per qualcosa di esotico e magico.

Lo stile è immaginifico, ricco di colori, sapori, profumi, suoni, sfumature: la lettura ci ha trasportato in Brasile e nel mondo di Bahia, con le sue donne pettegole, i giocatori d’azzardo, le vicine di casa impiccione e altre calorose e solidali come solo nel sud del mondo può accadere, la cucina golosa e stuzzicante, i balli sensuali come il tango e il samba, un mondo dove i riti voodo sono all’ordine del giorno. Un affresco di umanità, un fantastico intreccio di vite. Questa moltitudine di persone, di chiacchiere in alcuni punti suscita vertigine, quasi nausea. Alcuni lettori hanno sofferto la ripetitività e l’accumulo, trovando alcune parti estenuanti e noiose. Ma il finale, così magico e perfetto, è stato apprezzato da tutti e ha ripagato della fatica.

Alcuni personaggi, poi, sono rimasti impressi nella memoria per la loro folle vitalità e simpatia: Amado ce li racconta con passione e corroborante buonumore, li dipinge con indulgenza, sorride dei loro peccati, delle credenze popolari, del loro testardo ottimismo. Abbiamo così riletto in compagnia le pagine più comiche, tra maghi e prostitute, giocatori, impostori, pettegole.

Leggi la pagina 21 di questo libro.