Leggenda privata, di Michele Mari

Si tratta di una sorta di autobiografia di Michele Mari, arricchita di fotografie della sua infanzia e prima giovinezza, ma è anche uno dei romanzi più strani, divertenti ed intelligenti che il gruppo di lettura abbia letto fino ad ora, dimostrando una grande disponibilità nei confronti di un testo oggettivamente complesso e difficilmente definibile. Tranne due lettrici che si sono arrese e non hanno completato la lettura, le altre sono giunte con soddisfazione all’epilogo e hanno espresso un giudizio positivo o addirittura entusiastico.

Occorre anzitutto sgombrare il campo dai pregiudizi e dall’abitudine ad inquadrare o etichettare, perché Mari non si lascia inserire in nessuno schema semplificatorio: questo libro (che non è solo un’autobiografia) ha anche una forte componente horror-fantastica e si muove entro un ampio spettro di registri che comprendono la parodia, l’ironia e perfino l’amara comicità.

L’argomento affrontato è la vita dell’autore, in particolare nei primi anni della gioventù; una vita unica e particolare, perché il ragazzo nasce in una famiglia abbiente e decisamente più acculturata della media. Una vita, dunque, invidiabile, ma che deve fare i conti con una madre, l’illustratrice Iela Mari, votata all’infelicità, e con un padre ingombrante e autoritario, Enzo Mari: noto designer, che ha portato a compimento la scalata sociale intrapresa dal padre, arcigno pugliese trapiantato a Milano. Accanto ai genitori compaiono la sorella, gli zii, i quattro nonni, ma anche personaggi noti, come Enzo Jannacci o Eugenio Montale e Dino Buzzati, amici questi ultimi del nonno materno e il secondo anche compagno di escursioni montane della madre, quando ancora il suo carattere umbratile non aveva preso il sopravvento.

Mari si muove in uno spazio triangolare cir­coscritto dal masochismo materno, il sadismo pa­terno e l’erotismo di una  giovane cameriera un po’ volgarotta che risveglia le sue fantasie sessuali di ragazzino: sicchè il libro si può definire anche romanzo di formazione giocoso e serissimo insieme.

A complicare ulteriormente l’intreccio narrativo, Mari accosta due strutture diverse e per molti versi opposte: la cornice del romanzo infatti è fantastica, di impostazione gotica, con venature horror; e tuttavia la vicenda narrata in Leggenda privata è quella di una famiglia vera: la famiglia Mari, spiata dagli occhi di Michele bambino e adolescente. È una storia dolorosa, a volte anche drammatica, snocciolata attraverso la rievocazione frammentaria di aneddoti quasi sempre molto divertenti ma non di rado anche incredibilmente crudeli: una delle immagini più crude e indimenticabili del libro consiste in una scarpa da donna abbandonata in fondo a un corridoio silenzioso e deserto, circondata da schegge di vetro e ricolma di sangue «Non macchie di sangue: sangue abbondante, liquido, come in una salsiera».

E che gli episodi siano autentici lo certificano la precisione dei ricordi e il rimando ai documenti: testimoni, disegni, soprattutto molte fotografie, bellissime e inquietanti.

Questa precisa scelta narrativa sembrerebbe suggerire che ogni storia famigliare è, in fondo, racconto del terrore.

Di sicuro le vicende familiari, descritte con totale sincerità e senza compiacimento alcuno, ci confermano questa chiave di lettura, e hanno spinto il gruppo a chiedersi più volte come abbia fatto Mari ad uscirne, a salvarsi da un tale orrido nido di vipere, consapevolmente e sistematicamente creato dal padre. La risposta che ci siamo dati, l’unica solu­zione possibile ci è sembrata, forse ovvia ma persuasiva: la Scrittura, i Libri, la Letteratura.

La prima trasgressione al progetto di vita che il padre aveva costruito per lui era stata infatti la sua decisione di iscriversi a Lettere anziché  proseguire sulla strada paterna. E così deve essere accaduto che non solo Mari ha salvato se stesso uomo, ma ha anche creato uno dei massimi scrittori contemporanei: la letteratura è diventata per lui uno scudo protettivo e insieme un potente strumento conoscitivo che gli ha permesso di esplorare nuove strade narrative, dirompenti nella loro originalità.

Il suo modo di scrivere infatti è molto inconsueto, costringe spesso a ricorrere al dizionario e a volte senza trovare risposte perché Mari non usa solo parole desuete e arcaiche, ma le inventa, alla maniera del suo amato  Gadda, riuscendo però a non essere artificioso ma a  trasmettere veridicità, e spesso con ironia.  È chiaro come dietro ad ogni singola frase vi sia una cura e un lavoro impeccabile… Ma questa ricerca costante di uno stile affatto diverso, in ognuno dei suoi libri, diversissimi l’uno dall’altro, è forse legata al nodo cruciale che ancora segna la sua vita: come si può dire l’indicibile? Pare chiedersi Mari, soprattutto in Leggenda privata, ma anche nelle altre opere, dove sempre ritornano i suoi temi: l’infanzia sanguinosa, la famiglia, la misantropia, la nevrosi, l’arresto del tempo, il ripiegamento, la solitudine, i mostri e i fantasmi.

Per esprimere l’indicibile è necessaria una lingua altra, fabbricata ex novo col virtuosismo di cui è capace, scoppiettante di neologismi, con un uso quasi cruento delle parentesi, e il corredo non verbale di fotografie straordinarie che da sole basterebbero a ricreare l’atmosfera angosciante di quella famiglia, di quella “leggenda privata”.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Le otto montagne, di Paolo Cognetti

È la storia di due amici e una montagna. Così l’autore Paolo Cognetti ha definito Le otto montagne, un romanzo d’esordio accolto con enorme successo, che può essere già definito “un classico”. Perché questa storia d’amicizia tra due bambini che diventano uomini tra fughe e tentativi di ritorno, attraverso la condivisione di camminate, impegno e persino la costruzione di una piccola casa, alla continua ricerca di una strada per trovare se stessi è universale e ha coinvolto tutti… o quasi.

In questo libro la montagna non fa solo da sfondo ma è protagonista, raccontandoci qualcosa dei personaggi che trovano nel rapporto con il paesaggio uno specchio e una spiegazione ai loro sentimenti. Una montagna sfrondata dalla retorica di paradiso, fatta non solo di neve e dirupi, piste da sci, laghi e vallate. Una montagna che è un modo di vivere la vita, con dignità, nobiltà ma anche fatica. Una montagna che è lo specchio dell’esistenza dei due protagonisti: Pietro, un ragazzino di città, solitario e un po’ scontroso, i cui genitori, pur trasferitisi a Milano, si sono conosciuti e sposati in montagna tanto da trovare nel paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, il luogo ideale per trascorrere le loro estati; e Bruno figlio dei pascoli e delle alture, dai capelli biondo canapa e dal collo bruciato dal sole. Iniziato alle camminate dal padre, “la cosa più simile a un’educazione che abbia ricevuto da lui”, Pietro soffre in realtà del “mal di montagna” che lo allontanerà da queste cime. Fino a quando l’eredità del genitore lo farà ricongiungere dopo anni all’amico Bruno e a quei luoghi.

Il cuore della storia è la costruzione della casa, che segna l’evoluzione delle relazioni tra i personaggi: attraverso la casa avviene la ricongiunzione di Pietro con il padre e intorno a questo rifugio che costruiscono insieme, Bruno e Pietro cercheranno di ritrovare se stessi, nel rapporto con l’altro e con la natura.

Il libro è stato apprezzato dai lettori, pur suscitando emozioni e suggestioni molto diverse.

Qualcuno ha provato un senso di serenità per quello che rappresenta la montagna, l’osservazione del ciclo della vita e delle stagioni e la profonda ricerca interiore che conducono gli stessi personaggi, Pietro come eroe vagabondo, Bruno come montanaro inscindibile dal suo ambiente.

Per altri lettori invece ha prevalso un senso di malinconia e solitudine, di amarezza e incompiutezza. I protagonisti sono così caratterizzati da risultare incredibilmente cocciuti e quasi piatti. In particolare Bruno è un carattere monolitico: non può, non riesce o non vuole vivere in modo diverso, e sembra rimanere per tutto il romanzo il bambino di poche parole cresciuto dalla montagna stessa.

Tutte le relazioni nel romanzo sono complicate, a volte compromesse dall’incomunicabilità che si instaura tra i personaggi. La tipicità maschile di questi rapporti è un elemento chiave del romanzo: tra tanti silenzi, non detti e il senso di smarrimento, di non sapere cosa fare della propria vita, i due amici condividono momenti molto intensi, non legati strettamente alla parola, e quello che cementa in maniera unica questa loro amicizia è l’estate passata a lavorare fianco a fianco per costruire qualcosa che rimane. Sono i personaggi femminili, invece, a portare calore, a evolvere, a fare delle scelte e a ripartire anche dopo perdite e delusioni.

Proprio partendo dall’analisi dei personaggi e dalle reazioni personali che hanno suscitato, i lettori si sono confrontati su come a volte ci si faccia condizionare dalla simpatia o vicinanza a un carattere nell’apprezzare o meno una lettura. Abbiamo convenuto che non si dovrebbe giudicare un libro e i suo personaggi con le nostre personali categorie di positivo/negativo, con la consapevolezza che a volte respingiamo alcuni personaggi come se fossero persone reali e non rappresentazioni di idee dell’autore. Bruno e Pietro nel loro essere così caratterizzati rappresentano probabilmente due modi di compiere una ricerca interiore e paiono due figure letterarie, una l’alter ego dell’altra.

Ma il vero personaggio centrale rimane la montagna che spesso crea le situazioni di armonia e serenità tra gli esseri umani. A questo proposito è molto suggestiva l’immagine della mappa con la traccia dei percorsi fatti insieme come a ripercorrere i fili che legano i personaggi tra loro.

In tutto il romanzo si sente il coinvolgimento personale e sincero dell’autore: Cognetti stesso ha scelto di vivere ad alta quota, lontano dalla città, si sente il suo amore e il rispetto per la montagna, un luogo che nobilita chi fa la fatica di affrontarlo.

Leggi la pagina 21 di questo libro.