La figlia oscura di Elena Ferrante

Leda è una professoressa e ricercatrice di quarantotto anni, è una donna colta, fredda, affascinante e distaccata, quasi antipatica, che decide di trascorrere le vacanze estive sulla costa ionica. Le figlie ventenni, Bianca e Marta, sono in Canada con l’ex marito Gianni, così lei è libera di passare del tempo in solitudine. Dal primo giorno in spiaggia Leda comincia a osservare una giovane madre con la figlioletta e le due colpiscono Leda non solo perché sono decisamente più fini del resto della loro rozza famiglia, ma anche perché vede in loro echi del proprio passato, e soprattutto la sollecitano a un bilancio della sua intera esistenza e delle scelte fatte: così come la giovane madre Nina, anche Leda è stata una madre giovane e talentuosa intrappolata in una situazione claustrofobica e snervante, da cui era poi fuggita quando le figlie erano ancora piccole, per dedicarsi alla carriera accademica e a una relazione con un professore inglese. Era tornata poi dalle figlie solo tre anni più tardi e da allora aveva faticosamente ricostruito un rapporto con loro dopo questo strappo.

In questo romanzo il tema dominante è la maternità, attraverso un viaggio introspettivo nel rapporto madre figlia, argomento doloroso per la protagonista, che analizza la sua vita, parlandone in prima persona, ma guardandosi con gli occhi severi di sua madre. Le relazioni tra i personaggi femminili del romanzo si intrecciano in un continuo specchiarsi reciproco.

Leda ha suscitato sentimenti contrastanti nelle lettrici, alcune sconvolte dall’egoismo e dalla freddezza che sembra rasentare il sadismo della donna, altre sono rimaste turbate dalla descrizione della fatica di una maternità vissuta come una prigione, soprattutto se gestita interamente da una donna senza l’aiuto e il sostegno di nessuno.

Mentre procediamo nella lettura, scopriamo un po’ alla volta che la figlia oscura del titolo non è soltanto Leda, ma anche le altre donne della vicenda narrata: Nina, la piccola Elena (che insieme ad altri segnali ci rimanda a L’amica geniale), la stessa bambola perduta, e anche l’intera “catena di donne” dalle quali sono scaturite le loro vite. In ognuna di loro si sono creati quegli abissi di incomprensioni, fratture, scontri feroci che tra madri e figlie da sempre si riproducono, generazione dopo generazione: una catena di figlie, madri, donne sofferenti e inquiete, insoddisfatte per la mancata realizzazione, per le scelte sbagliate, per gli errori compiuti, e nello stesso tempo oppresse dal senso di colpa per aver cercato di uscire dagli schemi imposti. Di certo, l’intero svolgimento della vicenda conduce alla demolizione impietosa dello stereotipo dell’amore materno comunemente inteso. La bambola che Leda ruba alla piccola Elena non è solo un giocattolo ma un elemento fortemente simbolico: il furto diventa l’inconscio tentativo di recuperare una parte della propria infanzia, un momento opaco che la trascinerà verso il ricordo della propria maternità. Infatti la riporta alla bambola della sua infanzia che aveva poi regalato alla figlia Bianca per vedersela sporcare, danneggiare, rifiutare. Così la bambola rubata da Leda diventa per lei un’altra figlia da accudire amorosamente, come a compensare la dedizione che non ha avuto per le figlie e a lenire una profonda solitudine. Questo attaccamento morboso per il giocattolo fa sì che Leda restituisca la bambola solo alla fine del racconto, ormai troppo tardi; infatti Nina non la perdona (proprio come sua madre era morta senza che si riavvicinassero) e la ferisce con lo spillone che lei stessa le aveva regalato.

Ben costruita, ricca di ritratti psicologici non scontati e di immagini forti e simboliche (ad esempio i parassiti fatti uscire dalla bambola) la storia procede con una certa tensione che si scioglie solo nel finale: “Sono morta, ma sto bene”, dice Leda quando la telefonata delle figlie le fa prendere coscienza dell’accaduto e appare forse pacificata con se stessa, avendo esplorato a fondo le ragioni del senso di fallimento per la sua vita, lei che fino ad ora ha indossato la maschera dell’intellettuale di successo pur rinunciando a un’esperienza compiuta di maternità, lei che in queste giornate di vacanza ha lasciato emergere rimorsi, dubbi e timori, e alla fine non ha trovato risposte, perché forse non ve ne sono, come non esistono ricette, ma una cosa l’ha capita, seppure amaramente: che il suo senso di colpa deriva soprattutto dall’incapacità di attuare i propri desideri. La sua storia dimostra ancora una volta come una donna che non la pensa e non si comporta come la società richiede alle donne, fatichi a essere se stessa e a emanciparsi.

Elena Ferrante è una delle scrittrici contemporanee più interessanti. Dietro tanta bravura, tanta cultura, dietro l’anonimato, si nasconde una grande nostalgia della sua infanzia oscura e dolorosa, tanta “smarginatura”, e un amore – odio mai risolto verso le proprie radici che inutilmente tenta di rifiutare e sempre la riavvolgono. Il suo romanzo ha suscitato un confronto molto ricco tra le lettrici, perché ognuna ha colto sfumature e significati differenti.

Interessante anche la trasposizione cinematografica proposta da una giovane regista americana, Maggie Gyllenah.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

La promessa di Damon Galgut

Ultimo libro del sudafricano Daniel Galgut, scritto nel 2021, vincitore del Booker Prize, “La promessa” segue la saga della famiglia bianca degli Swart, vicenda che dura tre decenni, fino all’ epoca attuale, dalla morte della madre di tre figli, che in punto di morte promette alla serva nera, Salome, una casa in eredità. Tale promessa, nel corso degli anni, non viene mai mantenuta, e sembra quasi porre una “maledizione” sugli eredi, colpiti da morti insolite, a volte persino drammaticamente ironiche, fino ad una risoluzione finale che si lascia al lettore.

Scritto in terza persona, il libro sorprende adottando la prima persona numerose volte, anche per far parlare personaggi secondari e di contorno. I capitoli sono introdotti ogni volta da un funerale, evento che costringe una famiglia disgregata a unirsi, e a tirare le somme, o presentare il loro progredire negli anni, a volte nel bene, spesso nel male. Le dinamiche tra i personaggi, spesso da intuire, emergono in questi incontri.

La disgregazione degli Swart fa da specchio alla disgregazione e le problematiche del Sudafrica, paese in conflitto, tra corruzione della classe politica, violenza e disparità sociali e dove ancora si vive un razzismo quotidiano, nonostante l’apartheid sia terminata. Dunque una vicenda familiare che s’intreccia a quella politica, sociale, storica, culturale di un paese, con una critica sferzante ai sudafricani bianchi, incapaci di rinunciare a privilegi antichi e desueti.

Gli Swart, senza fare eccezioni, appartengono a questa casta legata a tradizioni e un modello che non è ancora mutato, diventano esempio di tale mondo nel momento in cui non mantengono la promessa alla madre per avidità ed egoismo: vi è solo un’eccezione, Amor, la figlia più piccola, vista male anche all’interno del suo nucleo parentale, colpita da un fulmine da piccola, e per questo- ma non solo- vista come diversa, strana. Quasi sempre in silenzio, Amor osserva tutto ciò che le capita intorno con sensibilità, compie scelte fuori dagli schemi e fuori dalla famiglia, con cui intrattiene rapporti solo in circostanze estreme, come i funerali che li portano a riunirsi.

Anche Anton – la cui origine viene segnalata come non chiara- pare l’unico altro ribelle tra gli Swart. Sferzante, ironico, cinico, non incline a sottostare al padre, desideroso di scrivere, diserterà anche il servizio militare, per poi compiere un atto di umiliazione impensato che lo muta in una figura tragica e fallimentare, e al contempo ridicola, nel prosieguo della sua vita.

Discussione accesa e molto sentita per i lettori, che hanno segnalato un’iniziale difficoltà, dovuta ai passaggi di narrazione dalla prima alla terza persona, per poi riuscire a immergersi nel libro, pure se non tutti con facilità. Molti hanno sottolineato la critica e il parallelo tra la storia di disgregazione familiare e la disgregazione del paese, la critica a un razzismo ancora esistente, espressa anche nel simbolico ” non dar voce ai neri” del libro, o molto limitata, e il tema del denaro, davanti al quale paiono piegarsi tutti, prima o poi, anche rinnegando attitudini iniziali diverse, come il ribelle Anton.

Viene sottolineata una maggior attenzione alla storia rispetto ai sentimenti intimi e personali, relegati alla fantasia del lettore. Gli accenni a rapporti di affetto e solidarietà emergono appena sfumati solo nel rapporto tra Amor, Salome e Ma.

Apprezzato da tutti il senso dell’umorismo che a volte pervade le pagine, specie nei funerali, o al cospetto di usanze, o davanti alle tante diversificazioni di culti, che in taluni casi presentano personaggi e situazioni tragicomiche.

Leggi la pagina 21 di questo libro.