Il libro delle mie vite di Aleksandar Hemon

Hemon ha impiegato undici anni a scrivere questo libro autobiografico fatto di quindici capitoli corrispondenti ad altrettante tappe della sua vita, anzi, alle sue vite al plurale, perché per raccontare la sua vicenda non basta una sola esistenza: <Ne occorre una per lo skyline notturno del centro di Chicago e una per la mappatura sgomenta di una Sarajevo mutilata dalla guerra. Una per il gioco degli scacchi contrari, dove lo scopo è perdere. Una per il più assoluto dei dolori>

È un libro difficile, a metà tra romanzo e saggio, capace di urtare il lettore per la freddezza e il distacco che sono volutamente applicati ad esperienze talmente dolorose che rischierebbero di far scivolare la scrittura nel melenso o nel patetico. Per queste ragioni diversi lettori hanno dichiarato la resa di fronte alle pagine di Hemon che non sono riusciti a finire, mentre altri hanno completato la lettura ma con fatica. Al contrario, un gruppo di entusiasti ha parlato di questo come di uno dei libri più belli letti finora, chi perché si è personalmente ritrovato nel tema dello sradicamento, chi perché ha apprezzato proprio lo stile sincero dello scrittore che rende ancora più toccanti alcuni passaggi. Hemon ha un modo tutto suo di affrontare temi universali come l’amore, lo sradicamento, problemi d’identità, la guerra. Se vuole parlare, per esempio, di Sarajevo che cade a pezzi, inizierà dai cani che ha avuto nella vita. E si capirà tutto lo stesso. Anzi, si capirà meglio.

Bisogna dire poi che anche i lettori non del tutto conquistati da Hemon, poiché non hanno provato l’effetto “trascinamento” che innescano a volte le letture, hanno però ammirato la potenza di alcune pagine: la nostalgia per quel piatto bosniaco irripetibile, le ragioni per cui non lascerebbe Chicago, la delusione per il professore rivelatosi braccio destro dei criminali di guerra, la malattia e la morte della figlioletta. Hemon non è uno scrittore semplice: l’immagine di copertina non a caso reca il volto inquietante di un alieno che si affaccia da una buia finestra…

Sicuramente l’intero gruppo si ritrova nella dichiarazione che lo stesso Hemon ha fatto a proposito del suo scrivere: di fronte all’orrore, alla guerra, alla morte, alla perdita di identità, può salvarci solo la parola, la letteratura come strumento di sopravvivenza, perché il linguaggio può diventare un argine al dolore, insieme all’ironia che aiuta ad alleggerire l’insostenibile pesantezza di certi accadimenti.

Hemon, un uomo che ha perso tutto: la patria, la lingua madre, la figlia amata, ci dice che la letteratura può aiutarci anche nelle circostanze più ardue, persino a trovare le parole per raccontare il più indicibile dei dolori: la morte di un figlio.

Leggi la pagina 21 di questo libro.

Cecità di Josè Saramago

In una città senza nome scoppia una misteriosa epidemia di cecità, un “mal bianco” che colpisce, pian piano, tutti gli abitanti tranne una donna. L’istinto animale alla sopravvivenza porta velocemente la società a toccare un fondo fatto di abiezione e crudeltà. Lo stesso istinto spinge alcuni ad organizzarsi in gruppi e risalire verso la superficie. Nessuno ha un nome, ciascuno è identificato per mezzo di una caratteristica che, fatalità, fa sempre riferimento agli occhi (il medico che è oculista, il primo cieco, la ragazza dagli occhiali scuri, il vecchio strabico ecc.).

Una dura e disastrosa allegoria sulla natura umana che nel momento del disagio mette in evidenza tutta la malvagità, la mancanza di rispetto, l’egoismo di cui un essere umano può essere capace. Un libro che è come un pugno nello stomaco, che ti rimane dentro, che fa riflettere. Un’opera talmente intensa, profonda e drammatica che una lettrice non è riuscita a sostenerne la lettura, trovando invece meno sconvolgente la rappresentazione cinematografica; un segno della forza dirompente delle parole e dell’immaginazione.

Tutta la vicenda narrata ha una forte carica simbolica: i personaggi senza nome e l’ambientazione indefinita indicano che il declino in cui precipita l’umanità può succedere a chiunque, dovunque. La cecità che colpisce la popolazione è pretesto narrativo e metafora dell’incapacità di vedere l’altro, che arriva al culmine quando le condizioni per la sopravvivenza si fanno estreme: <Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, ciechi che vedono, ciechi che, pur vedendo, non vedono>. Infine, la pioggia finale che lava i corpi sudici dei sopravvissuti, simboleggia la purificazione, il liberarsi dagli orrori vissuti e compiuti.

L’opera ha suscitato in tutti i lettori angoscia e dolore, soprattutto nelle scene di crudeltà, violenza e sopraffazione in cui prevalgono gli istinti bestiali. Non manca però una vena di speranza: la salvezza potrà arrivare creando un gruppo, riscoprendo sentimenti di solidarietà. La cecità è per qualcuno lo stimolo, il pungolo che risveglia commoventi sentimenti di solidarietà, soprattutto al femminile. La moglie del medico è infatti l’eroina, la protagonista morale di questo romanzo, rappresenta la luce, la vita, l’altruismo, l’amore estremo.

Saramago compie una immensa prova di scrittura: crea con realismo immagini vivide attraverso le parole (ad esempio la potente scena dei ciechi dentro la chiesa con le statue bendate), è capace di far raccontare a queste immagini anche l’indicibile, ci spiega le impressioni, le sensazioni, le speranze, le pulsioni e le psicologie dei personaggi.

Lo stile è originale, non semplice ed immediato: è un testo quasi senza punteggiatura, con i dialoghi riportati secondo la tecnica del discorso diretto libero. Il linguaggio di Saramago è coltissimo, forbito, a tratti ironico pur nella vicenda angosciosa, ma il miracolo principale è che riesce a coinvolgere ed appassionare senza risultare noioso o pedante, e soprattutto non scade mai in facili moralismi. I concetti del bene e del male vengono sempre rimessi in discussione, ogni personaggio ha sfumature, contraddizioni e zone d’ombra.

Da amanti della letteratura, i lettori hanno notato come il raccontarsi storie rappresenti la salvezza, il mantenersi umani e in relazione. Molto forte ad esempio la scena dello scrittore che continua a scrivere, incidendo sulla carta, pur sapendo che nessuno potrà leggere le sue opere.

Il libro ha ricordato a una lettrice “La peste” di Camus, del 1947, in cui il flagello si abbatte sulla cittadina di Orano, sconvolgendo la vita dei suoi abitanti; in quell’opera era molto forte la metafora politica poiché la peste rappresentava il nazismo e gli autoritarismi, vinti dalla solidarietà. Più ampio e universale, invece, il messaggio di Saramago che nel discorso fatto in seguito all’assegnazione del Premio Nobel, definì cieca la società contemporanea, dal momento che secondo lui si è perso il collante sociale che portava le persone ad essere solidali e ad aiutarsi reciprocamente.

Leggi la pagina 21 di questo libro.